L’impasse islandese sul controllo dei capitali

scritto da il 26 Giugno 2015

Questa storia inizia nell’autunno del 2008 in un’isola che conta poco più di 300mila abitanti, sperduta nell’Oceano Atlantico settentrionale: l’Islanda.

L’economia di questo piccolo stato nei primi anni 2000 aveva conosciuto un periodo di grande espansione, fino a far vantare ai suoi abitanti uno dei redditi pro-capite più alti del pianeta. Questo grazie non tanto alle poche attività manifatturiere ed agricole presenti, ma al suo sistema finanziario, praticamente da piazza offshore, incentrato su tre banche private: Kaupthing, Landsbanki e Glitnir.

Le tre banche negli anni dell’euforia finanziaria crescono, crescono, crescono, raccogliendo depositi da tutt’Europa, specie dal Regno Unito. Poi salta in aria la Lehman Brothers, tutti si prendono paura e tanti begli investimenti che si pensava fossero sicurissimi diventano cartastraccia o rischiano di diventarla, travolti dall’improvvisa paura che ha contagiato i mercati.

Le tre banche islandesi non sfuggono a questo destino. Viste come troppo rischiose dagli investitori faticano a rinnovare i finanziamenti, i depositanti scappano ed il problema diventa nazionale con l’Islanda che ha oramai un debito estero pari a 7 volte il suo Pil e per di più in fuga, dimensioni che impediscono anche qualsiasi intervento alla Banca centrale Islandese, aumentando in tal modo ancor di più il panico.

Le banche vengono quindi liquidate dallo stato islandese, che ne crea di nuove, nazionalizzate per dare continuità operativa. I loro attivi vengono messi in un fondo, depositi e investimenti esteri vengono congelati, ma questo ovviamente non fa scendere la tensione sui mercati. Anzi, inizia una vera e propria corsa a vendere qualsiasi cosa sia denominata in corone islandesi, dai titoli di stato agli speculativi Glacier Bond.

La vendita improvvisa di grandi quantità di titoli islandesi e la conversione del ricavato nella valuta dei creditori crea grossi problemi alla valuta nazionale. Già la sua quotazione sui mercati esteri dall’inizio della crisi aveva iniziato a differire verso il basso da quella ufficiale della banca centrale, agganciata all’Euro. Il 6 ottobre del 2008, però, inizia un vero e proprio overshooting, fino a rendere inevitabile lo sganciamento dall’euro e l’imposizione, a fine novembre, di controlli sui capitali.

Cosa sono i controlli sui capitali? In pratica significa che i capitali di investimento non si possono muovere fuori o dentro il paese. Tu puoi comprare tranquillamente da Amazon ma non puoi comprare delle azioni Amazon negli Stati Uniti. Puoi vendere beni o servizi all’estero ma devi cedere la valuta estera ricevuta in pagamento alla Banca centrale al cambio da lei stabilito. Non puoi comprare una casa all’estero o fare un mutuo all’estero per comprare poi una casa in Islanda o mettere i tuoi soldi in un fondo comune estero.

Stabilizzata la valuta l’Islanda dovette chiedere aiuto al Fondo monetario per riuscire a saldare via via i suoi bond detenuti all’estero: un programma di austerità volto a ridurre il debito pubblico e rimborsi graduali tramite aste hanno portato l’ammontare dal 44% del Pil al 16% attuale e finalmente la Banca centrale islandese ha annunciato che da giugno entrerà in vigore un piano per la rimozione dei controlli sui capitali.

Come mai tanto tempo per togliere una misura che era emergenziale? Il problema sta appunto nel fondo che ha ereditato gli attivi delle tre banche fallite.

Molti di quegli attivi erano all’estero o espressi in valuta estera, ma una parte sostanziosa era denominata in corone islandesi e un rimborso all’estero avrebbe riproposto gli stessi problemi di conversione in valuta estera e il prosciugamento delle scarse riserve del Paese. A questo sono andate ad aggiungersi le difficoltà politiche del governo nel trovare un accordo coi creditori o con gli investitori, che sono subentrati comprando quei crediti di difficile esigibilità a prezzi stracciati, e nella liquidazione degli attivi, che non è ancora avvenuta completamente (sono elevati, il 110% del Pil islandese), lasciando parecchie incertezze su quanto alla fine sarà la somma disponibile per i rimborsi.

Con le elezioni che si avvicinano si cerca una soluzione entro la fine dell’anno – termine oltre il quale il fondo andrà in bancarotta, causando ulteriori perdite ai creditori – compresa una pesante tassa, così da forzare un accordo, evitare ulteriori confronti in sede legale e fare in modo che il governo possa presentarsi agli elettori con il rientro dell’Islanda sul mercato dei capitali. Mercato dei capitali che però sarà ancora precluso agli islandesi. Per gli investitori domestici, infatti, è previsto un altro piano per il prossimo autunno o inverno. Con il timore che ci vogliano anni per la definitiva conclusione.

Questo è il problema dei controlli sui capitali: si mettono in un attimo, ma poi  sono spesso per la vita. Quasi come i diamanti.

Twitter @AleGuerani