In Europa saltano banche come tappi, sarà mica il caso di ripensare la vigilanza?

scritto da il 23 Dicembre 2015

Pubblichiamo un post di Carlo Milani, Senior Economist presso il Centro Europa Ricerche (CER), dove è responsabile della gestione del modello macro-econometrico per l’Italia e segue le tematiche relative all’industria bancaria. E’ inoltre docente a contratto presso l’Università degli Studi Roma Tre e redattore del sito di informazione finanziaria del Dipartimento di Matematica del Politecnico di Milano, FinRiskAlert.it. Svolge prevalentemente la sua attività di ricerca nel banking, ambito nel quale ha pubblicato diversi studi su riviste nazionali e internazionali. Ha recentemente pubblicato con Egea Editore il libro “Alle radici della crisi finanziaria. Origini, effetti e risposte”

LE PERPLESSITA’ SUI PIANI DI SALVATAGGIO BANCARI

di Carlo Milani

Il dibattito sul piano di salvataggio di Banca Marche, Popolare dell’Etruria e del Lazio, CariFerrara e CariChieti non sembra placarsi (adesso si è aggiunta anche Tercas). A distanza di settimane rimangono grandi perplessità circa le modalità attraverso le quali si è giunti a questo intervento, perplessità legate anche alla sua scarsa trasparenza. Come noto solo gli azionisti e gli obbligazionisti subordinati dei quattro istituti sono stati coinvolti nel ripianamento delle perdite.

L’autorità di risoluzione, ovvero Banca d’Italia, ha deciso di adottare un meccanismo di partecipazione alle perdite, il cosiddetto bail-in, in forma attenuata. Se si fosse applicata per intero la procedura standard prevista dalla Direttiva europea sulle risoluzioni bancarie (BRRD) avrebbero dovuto partecipare alle perdite anche gli obbligazionisti ordinari non garantiti, i finanziamenti interbancari con una durata superiore ai 7 giorni e i depositanti oltre i 100 mila euro.

Tra i creditori che hanno evitato perdite maggiori c’è quindi anche il sistema bancario. Oltre ai finanziamenti interbancari va ricordato, infatti, che circa un terzo dei 620 miliardi di obbligazioni bancarie emesse in Italia è stato acquistato proprio da altri istituti di credito, determinando un forte intreccio tra le passività bancarie.

Il fatto che le banche abbiano partecipato al piano di salvataggio, versando 3,6 miliardi di euro, non può considerarsi come una compensazione: 1,8 miliardi sono andati, infatti, a ricapitalizzare le nuove banche, istituti che non avendo in bilancio nemmeno un euro di sofferenze saranno presumibilmente rivenduti ad altre banche, senza grandi ostacoli e perdite e, anzi, potenzialmente con profitto; altri 1,7 miliardi sono serviti a coprire le perdite legate alla svalutazione delle sofferenze, confluite poi in una bad bank. Ma la perdita su questi crediti è puramente potenziale: le sofferenze sono state infatti svalutate dell’83 per cento, contro una media per l’intero sistema bancario inferiore al 60 per cento.

In definitiva, Banca d’Italia dovrebbe fare più luce sul costo-opportunità per il sistema bancario derivante dalla mancata applicazione estesa del bail-in. Inoltre, tra le possibilità previste dalla normativa c’era anche quella della conversione delle obbligazioni subordinate in azioni, che avrebbe permesso di salvaguardare parte del loro valore. Stesso approccio poteva essere seguito con le obbligazioni ordinarie non garantite. Si poteva cercare, in altri termini, di spalmare le perdite su più soggetti. Perché questa strada non è stata percorsa?

Anche la BCE, come titolare della vigilanza sugli istituti di credito europei, dovrebbe fornire maggiori ragguagli. Abbiamo rischiato un effetto domino su tutto il sistema bancario per effetto del default di istituti che hanno appena l’1 per cento dei depositi totali? Alle quattro banche italiane si è poi aggiunta più di recente una piccola banca portoghese, Banif, salvata in extremis prima dell’entrata in vigore del bail-in.

Il ripetersi di casi di insolvenza di piccoli istituti europei dovrebbe spingere verso un ripensamento della vigilanza bancaria, affidando maggiori poteri alla BCE anche sugli istituti di minore dimensione. Inoltre, c’è bisogno di introdurre quanto prima un “paracadute” europeo (cosiddetto financial backstop), coinvolgendo ad esempio il fondo salvastati ESM, per evitare che dalle risoluzioni di singoli istituti bancari si possa mettere in moto un effetto domino che contagi le altre banche.

Un faro dovrebbe poi essere acceso sulle modalità di collocamento delle obbligazioni subordinate. Dopo il tragico suicidio di Luigino D’Angelo, pensionato che ha perso i suoi risparmi investiti in obbligazioni subordinate della Popolare dell’Etruria, si è sottolineato come questi aveva acquistato i titoli sul mercato secondario, quasi a voler discolpare le banche coinvolte dall’aver “forzato” la sottoscrizione delle obbligazioni presso la loro clientela.

Nella stessa situazione del signor D’Angelo, ovvero risparmiatori che hanno acquistato obbligazioni subordinate successivamente alla loro emissione, ci sono quasi 2 mila soggetti, per un controvalore totale di circa 100 milioni di euro. Ciò vuol dire che investitori istituzionali hanno venduto, prima del default, obbligazioni che avevano sottoscritto all’emissione, titoli finiti successivamente nei portafogli della clientela retail.

Come nel caso dei fallimenti Cirio e Parmalat, il sospetto è che alcune banche si siano disfatte di obbligazioni che sapevano essere oramai spazzatura, sfruttando la loro capacità di influenzare le decisioni dei piccoli risparmiatori. Anche su questo punto una maggiore trasparenza è d’obbligo.

Twitter @MilaniC