L’illusione che tutto dipenda dalla sfida austerità vs flessibilità

scritto da il 14 Febbraio 2016

Austerità contro flessibilità. È il leitmotiv del decennio, difficile sostenere il contrario. Parole entrate a far parte del nostro vocabolario quotidiano, inevitabile conseguenza di un bombardamento mediatico senza precedenti. Entrano anche nei discorsi di persone che solitamente non si interessano di politica. Ciò porta l’immaginario collettivo a pensare che tutto dipenda dai margini di flessibilità concessi e che, se non ci fosse l’austerità di matrice europea, sarebbe tutto più semplice e saremmo già al di fuori della crisi.

Appare utile chiarire a tal proposito alcuni aspetti.

Cosa si intende per austerità

Nell’accezione comune, i vincoli europei. I primi due sono anche quelli storici, contenuti direttamente nel Trattato di Maastricht, nel protocollo sulla procedura per i disavanzi eccessivi:

I valori di riferimento di cui all’articolo 104 C, paragrafo 2 , del trattato sono :

— il 3 % per il rapporto fra il disavanzo pubblico, previsto o effettivo, e il prodotto interno lordo ai prezzi  di mercato ;

— il 60 % per il rapporto fra il debito pubblico e il prodotto interno lordo ai prezzi di mercato.”

Ma quali conseguenze sono previste per lo Stato membro che non rispetti tali parametri?

La storia della cosiddetta austerità europea è racchiusa in più tappe. Nel 1997 fu la volta del Patto di Stabilità e Crescita (o PSC), nato con l’obiettivo di vigilare sulle politiche di bilancio. Nello stesso si delineano anche i caratteri del “braccio correttivo”, che si unisce alla Procedura per i Disavanzi Eccessivi (o PDE), disciplinata dall’articolo 126 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (o TFUE) e dal menzionato articolo 104 del TUE. Poi sono arrivati six pack, two pack e Fiscal Compact.

Ma nel concreto cosa succede quando uno Stato membro eccede i suindicati parametri?

È la Commissione in primo luogo a valutare se esiste un disavanzo eccessivo, ma è il Consiglio dell’Unione Europea che decide. La Commissione prepara una relazione, tenendo conto di diversi fattori, ossia:

a) l’evoluzione della posizione economica a medio termine (potenziale di crescita);

b) le condizioni congiunturali;

c) la realizzazione delle politiche volte a incoraggiare la ricerca e l’innovazione;

d) l’evoluzione della situazione di bilancio a medio termine, in particolare gli sforzi di risanamento del bilancio in fase di congiuntura favorevole; e la realizzazione di riforme dei regimi pensionistici.

Inoltre, non si dà avvio alla procedura per disavanzo eccessivo quando lo sforamento dei parametri è “determinato da un evento inconsueto non soggetto al controllo dello Stato membro interessato ed ha rilevanti ripercussioni sulla situazione finanziaria della pubblica amministrazione” o  quando “è determinato da una grave recessione economica (il superamento del 3 % del PIL è dovuto ad un tasso di crescita annuo negativo del PIL o ad un calo cumulativo della produzione nel corso di un periodo prolungato di crescita annua estremamente debole)”. In questi casi si parla di sforamento “eccezionale”. Esso può essere anche “temporaneo”, quando la Commissione prevede il rientro nei parametri a breve.

Se non è eccezionale, né temporaneo, la Commissione redige una relazione e – ricevuto anche il parere del Comitato Economico e Finanziario – formula un suo parere e lo trasmette allo Stato membro, informandone anche il Consiglio.

Il Consiglio decide a maggioranza qualificata se vi è un disavanzo. In caso affermativo, invia delle raccomandazioni allo Stato sotto osservazione, il quale ha sei mesi per adottare misure che provino a rimediare alla situazione. Il Consiglio può rivedere tali raccomandazioni se si verificano circostanze economiche particolari o se, comunque, lo Stato sta comunque dando seguito alle raccomandazioni.

Se nessuna misura viene adottata, il Consiglio rende pubbliche le sue raccomandazioni. Entro due mesi invia un’intimazione, entro quattro mesi da quest’ultima (sempre ipotizzando che lo Stato non faccia nulla) si procede con le sanzioni. Premettendo che lo Stato membro può sempre dimostrare la sua volontà di ridurre il disavanzo, è prevista in caso di persistente inerzia una sanzione fissa pari allo 0,2 % del PIL e una parte variabile. Per gli anni successivi le sanzioni possono essere inasprite.

La “durezza” dell’austerity europea
Attualmente nove Stati membri sono sottoposti ad una procedura per deficit eccessivo: Croazia, Cipro, Portogallo, Slovenia, Francia, Irlanda, Grecia, Spagna, UK.

Le uniche a non averne mai subita una sono Estonia e Svezia. L’Italia ne ha avute tre, ma è al momento tra i Paesi “virtuosi”.

È interessante notare che MAI alcuna sanzione è stata applicata, nonostante ripetute violazioni commesse. Il mito di un’Europa intransigente è mistificatorio, almeno nei risultati. Tutte le procedure si sono concluse con una decisione del Consiglio che abrogava la precedente rilevazione di un disavanzo eccessivo.

In breve, quello che accade è questo: si sforano i parametri, parte la procedura, inizia un tam tam di diplomazia, lo Stato adotta qualche misura correttiva, la procedura si chiude. Una volta chiusa, se si sfora nuovamente il parametro, ricomincia la trafila. E così via…

Anche il famigerato Fiscal Compact, minaccioso nell’aspetto, si dimostra molto mite e mansueto nella sostanza. Oltre ad aver provocato l’introduzione nella nostra Costituzione del pareggio di bilancio, esso ci obbligherebbe a ridurre la spesa pubblica di 50 miliardi l’anno come è stato incautamente detto e scritto a più riprese.

Tralasciando tale assurdità per il momento e rinviando qui per una breve disamina di come l’obiettivo di riduzione del debito fino al 60% non sarebbe un’utopia con il target d’inflazione del 2%, ecco un brevissimo accenno al sistema sanzionatorio:

– Prima scappatoia politica contenuta nell’articolo 7 del Trattato del Fiscal Compact: i firmatari si impegnano a sostenere le rilevazioni della Commissione nei casi di accertato disavanzo eccessivo, ma “tale obbligo non si applica quando si constati tra le parti contraenti la cui moneta è l’euro che la maggioranza qualificata di esse (…) si oppone alla decisione proposta o raccomandata”.

– E poi l’articolo 8, emblematico. Se la Commissione rileva il mancato rispetto dei parametri, uno o più Stati firmatari possono adire la Corte di Giustizia, che deciderà con sentenza vincolante per le parti. Se il Paese che ha commesso l’infrazione non adotta i provvedimenti indicati nella sentenza, l’altra parte può chiedere l’imposizione di sanzioni finanziarie secondo i criteri stabiliti dalla Commissione Europea (vedi sopra). Qualora la Corte riscontri che lo Stato non abbia dato seguito alla sua decisione  “può comminare il pagamento di una somma forfettaria o di una penalità adeguata alle circostanze e non superiore allo 0,1% del suo prodotto interno lordo.”

Sorprenderebbe dover assistere un giorno all’applicazione di tali sanzioni. Come tutti i trattati internazionali, anche il Fiscal Compact soggiace al limite intrinseco della scarsa efficacia.

Cosa si intende per flessibilità
La parola adesso in voga è “flessibilità”. Poco più di un anno fa la Commissione Europea ha “aggiornato” il significato di tale termine. Nel comunicato stampa del 13 gennaio 2015, l’esecutivo europeo ha presentato le nuove linee guida in materia di flessibilità.

Esse hanno tre finalità: (1) incoraggiare l’attuazione effettiva delle riforme strutturali; (2) promuovere gli investimenti, segnatamente nel contesto del nuovo Fondo europeo per gli investimenti strategici (FEIS); (3) tenere maggiormente conto del ciclo economico nei singoli Stati membri.

(1) Per le riforme strutturali, si può consentire una deviazione temporanea dell’obiettivo di bilancio a medio termine (OMT) che non dovrebbe superare lo 0,5% del PIL del Paese considerato.

(2) In base alla famosa “Clausola sugli investimenti”, gli Stati Membri possono deviare temporaneamente dal loro OMT o dal piano di rientro concordato per compiere degli investimenti se sussistono una serie di condizioni legate al PIL, alla rilevanza europea degli investimenti e al non superamento del parametro del 3% di cui sopra.

(3) E’ adesso prevista una maggiore attenzione e valutazione del ciclo economico, distinguendo tra Paesi sottoposti e non sottoposti a procedure per disavanzi eccessivi.

Questi sono gli elementi essenziali della cosiddetta flessibilità europea, abbastanza complessi e – purtroppo – molto discrezionali. Ed è sulla base di tali premesse (con qualche larga interpretazione sui migranti nel caso italiano o sul terrorismo in quello francese) che molti capi di governo stanno tirando la giacchetta del presidente Juncker.

È davvero solo una questione di numeri?
Un’obiezione (legittima) a quanto scritto sopra in merito alla falsa durezza e alla scarsa efficacia pratica delle sanzioni europee, potrebbe riguardare l’effetto persuasivo delle norme di austerity, a prescindere dall’eventuale applicazione di sanzioni.

Sebbene sia evidente che i Paesi UE abbiano effettivamente irrigidito le loro politiche di bilancio a seguito dello scoppio della crisi, si deve tuttavia notare la lontananza da un pieno rispetto dei parametri europei. A riprova di ciò, i dati evidenziano che nel 2014 sono stati 13 i Paesi UE al di sopra del parametro del 3%, addirittura 18 rispetto a quello del 60% Debito/PIL.

La prima deduzione è che il mancato rispetto dei parametri di bilancio europei non comporta alcuna grave conseguenza.

La seconda deduzione concerne l’illusoria credenza secondo la quale fare più deficit possa significare una sicura ripresa.

Le risorse contano, ma per i risultati conta anche come esse vengono utilizzate. Se servono per redistribuire qualche bonus qua e là, difficilmente ne otterremo benefici sostanziali.

Qualche anno fa l’Irlanda rifiutò una linea di credito dell’European Stability Mechanism perché non voleva in alcun modo ritoccare la sua celebre corporation tax del 12,5%. Non risulta che siano salpate navi da guerra alla volta di Dublino. Adesso l’Irlanda viaggia a ritmi di crescita che imbarazzano il resto degli Stati membri, dimostrando che quella scelta di non alzare la tassazione sulle imprese ha funzionato.

Quello che spesso sfugge nei dibattiti è che i parametri europei si basano su due frazioni, Deficit/PIL e Debito/PIL. Gli Stati membri sono liberi di scegliere se agire sul numeratore o sul denominatore. Ci sono governi che riescono ad agire sul PIL, altri meno capaci che lavorano solo sul numeratore. Teoricamente non ci sono limiti al debito, ma i nodi vengono al pettine se non si raggiungono gli obiettivi di crescita desiderati.

E se non si raggiungono a causa di un cattivo uso delle risorse, la patologia si cronicizza. E sono dolori, che resterebbero tali anche se uscissimo dall’Euro, dall’Europa, dalla Nato, dall’ONU eccetera eccetera.

Twitter @frabruno88