Brexit e la fine del “super stato” europeo

scritto da il 01 Marzo 2016

Il Regno Unito ha sempre faticato ad integrarsi nel contesto europeo. Brexit ci pone di fronte il futuro di un’Europa destinata a rimanere un’unione di stati diversamente integrati, con una limitata infrastruttura sovranazionale. È l’Europa dei ‘cerchi concentrici’.

Divide et impera

Il ‘divide et impera’  britannico ha sempre osteggiato forti alleanze al centro dell’Europa. La creazione dell’Unione Europea nel 1957 non è un’eccezione. Ma il Regno Unito del secondo dopoguerra è una nazione in declino. La supremazia economica e militare passa rapidamente agli Stati Uniti, i veri vincitori del conflitto mondiale. Le difficoltà economiche e politiche nel gestire le colonie del Commonwealth spinge rapidamente il governo inglese ad accettare le varie richieste d’indipendenza.

Gli accordi di Bretton Woods fanno emergere una situazione finanziaria precaria per le finanze d’oltremanica, sancendo ufficialmente il passaggio dalla sterlina al dollaro come moneta di riserva globale, sebbene John Maynard Keynes abbia tentato vanamente di far introdurre una valuta sovranazionale alternativa (il cosiddetto ‘Bancor’). Il declino della sterlina, già iniziato con la caduta del gold standard nella prima guerra mondiale e ad inizi anni ’30, è irreversibile. Non è pertanto un caso che il Regno Unito si unisca alla Comunità Economica Europea (CEE) solo nel 1973, dopo la caduta di Bretton Woods e la successiva instabilità economica e valutaria, alle cui dimensioni solo la prospettiva di un mercato comune europeo dava risposte adeguate.

Negli anni l’economia inglese inizia anche una trasformazione più strutturale, verso un hub globale di servizi, che promuove Londra a centro finanziario d’Europa e del mondo. Questo passaggio a un’economia di servizi è anche riflesso in una graduale crescita del deficit di bilancia commerciale in beni, mentre i servizi (insieme ai ritorni sui movimenti di capitale e sugli elevati investimenti diretti esteri) sono fonte costante di surplus con il resto del mondo.

I retaggi del passato e la percezione di molti inglesi che il Regno Unito sia un hub mondiale (con o senza Unione Europea), hanno sempre lasciato il paese in una posizione di terzietà rispetto ai grandi eventi d’integrazione europea. A oggi, il Regno Unito non partecipa all’eurozona, all’area Schengen e alla cooperazione su politiche di sicurezza e giustizia. Questo, però, non sembra averlo salvato dalle paure di alcuni, ovvero che la libera circolazione di persone, beni, servizi e capitali sia la ragione del malaise verso le politiche europee, ma non verso il mercato unico.

Cavalcando queste paure, David Cameron ha vinto le passate elezioni, così da giustificare il referendum chiesto da quella parte del suo partito, i Tories, che l’ha aiutato a vincere le elezioni e che ora è scappata per appoggiare la fuoriuscita dall’Unione Europea, insieme a forze estremiste come quella di Nigel Farage. Si scaricano così le responsabilità politiche di ridefinire i complessi rapporti con l’Europa dal parlamento nazionale al dibattito dei tabloid inglesi, meno interessati a complesse analisi costi-benefici. L’arma del referendum ha, però, consegnato a Cameron pieno mandato di sedersi al tavolo di un negoziato, ma con il rischio di non soddisfare l’elettorato inglese, che notoriamente conosce poco e pretende molto dall’Europa.

I termini dell’accordo

L’accordo concluso da Cameron a Bruxelles per evitare Brexit copre quattro aree: governance economica, competitività, sovranità, welfare e libero movimento delle persone. Sulla governance economica, il Regno Unito ribadisce che l’integrazione dell’area euro deve rispettare la sovranità e i diritti degli altri stati membri. In particolare, s’introduce un principio di non discriminazione delle persone fisiche e giuridiche basato sull’appartenenza alla moneta unica.

Questo tema è già venuto fuori con la recente vicenda del documento BCE che chiedeva alle controparti centrali (infrastruttura di mercato), operanti principalmente in euro, di stabilirsi all’interno dell’eurozona per beneficiare del supporto diretto della banca centrale. Questo documento ha fatto infuriare il Regno Unito, sede della più grande controparte centrale al mondo per derivati operante in euro (LCH Clearnet), che fa ricorso alla Corte di Giustizia e, a marzo 2015, vince. Il fatto che la Corte abbia già interpretato i trattati europei come richiesto dal governo d’oltremanica, tuttavia, non è sufficiente a calmare le paure del governo.

Si rinnova così la necessità di una chiara demarcazione tra unione bancaria, che si applica solo ai paesi aderenti (per ora l’eurozona), e il single rulebook, ovvero la regolamentazione che si applica a tutta l’Unione Europea per il funzionamento del mercato interno. La distinzione sarà sempre più difficile da gestire e la Corte di Giustizia giocherà un ruolo chiave nel chiarire il rapporto tra le varie discipline.

Un altro pezzo importante dell’accordo è sulla sovranità, e in particolare sul principio di sussidiarietà, che permette alle istituzioni europee di deliberare quando gli stati nazionali non riescono a coordinarsi per raggiungere gli obiettivi dei trattati europei (quali il mercato unico). Sulla sovranità, il governo basato a Londra ha richiesto un’esenzione esplicita dal principio fondante di “un’unione sempre più stretta tra i popoli dell’Europa”.

In questo modo, alla prossima revisione dei trattati, si potrebbe ufficialmente sancire l’Europa dei “cerchi concentrici”, con una combinazione di assetti istituzionali intergovernativi e sovranazionali. In ogni caso, la facilità con cui le istituzioni europee hanno lasciato agire su questi temi dimostra la debolezza dell’attuale assetto istituzionale europeo, che rimane saldamente nelle mani dei governi nazionali.

Sul principio di sussidiarietà, gli accordi presi da Cameron prevedono anche l’introduzione di una procedura (red card procedure) che permetterà (entro 12 settimane dalla comunicazione iniziale) ai parlamenti nazionali, se raggiungono il 55% dei voti attribuiti, di rimandare indietro una proposta legislativa. Si tratta di un’innovazione interessante, che potrebbe in realtà mettere le decisioni europee dei governi nazionali sotto un più attento scrutinio dei parlamenti nazionali, molto spesso alienati da questioni locali di ben più piccola portata.

L’accordo richiede anche una generica riduzione dei costi della regolamentazione europea per rilanciare la competitività, a prescindere dai benefici che la regolamentazione porterebbe. Sebbene sia innegabile la necessità di evitare regole costose (al netto dei benefici), si tratta di una posizione vaga e con enfasi solo sui costi, per fare un favore alla lobby dell’industria finanziaria.

Ultimo aspetto importante dell’accordo sono le restrizioni per l’accesso al welfare dei lavoratori. La Commissione sembra concordare abbastanza frettolosamente con il governo inglese che ci sia una situazione di emergenza per l’interesse pubblico, tale da permettere una restrizione al movimento delle persone e ai benefici del sistema sociale.

Saranno così attivate una serie di misure, tra cui l’indicizzazione dei benefici economici per figli a carico residenti nel paese di provenienza del lavoratore in base alle condizioni di vita dove risiedono i figli. Molta poca roba in termini di saldi finanziari, ma con un impatto popolare di cui Cameron potrà beneficiare nel dibattito politico. Inoltre, si potrà limitare la circolazione nei casi di persone non attive economicamente che si trasferiscono senza risorse economiche proprio per sfruttare il welfare locale. Anche qui, un numero molto limitato.

Le restrizioni ai benefici non-contributivi per i lavoratori provenienti da altri stati si potranno applicare per un periodo massimo di 4 anni. La possibilità di introdurre restrizioni sarà limitata a 7 anni, dopodiché si tornerà alla normalità.

Brexit e il futuro incerto dell’Europa

La negoziazione di queste settimane ci ha ricordato delle sempre difficili relazioni tra il Regno Unito e il resto d’Europa. Paul de Grauwe afferma che Brexit sia la soluzione migliore proprio per l’Europa, poiché il governo inglese potrebbe diventare un ostacolo importante al necessario processo d’integrazione che serve a stabilizzare l’area euro. Ma Brexit sarebbe un problema sia per il Regno Unito che per l’Europa.

Certamente il paese perderebbe il passaporto europeo (la possibilità di offrire servizi da un singolo stato membro in tutt’Europa) e dovrebbe rinegoziare l’accesso al mercato europeo, che piace ancora molto agli inglesi. Si somma poi la rinegoziazione di accordi al commercio con un centinaio di nazioni, firmati dall’Unione Europea con il potere contrattuale dei 28 paesi membri. In questa fase di transizione, si creerebbe molto probabilmente una fuga di capitali, guidata dalle multinazionali e industrie inglesi che si ricollocherebbero in paesi come Irlanda o Lussemburgo per beneficiare del mercato interno.

Questa fuga potrebbe mettere in ginocchio l’economia inglese. La Scozia molto probabilmente chiederebbe di uscire dal Regno Unito e di rimanere nell’Unione Europea. L’Europa, intanto, perderebbe la sua seconda economia e anche centro finanziario, crocevia dei capitali di mezzo mondo. Si creerebbe inoltre un precedente per un graduale passaggio da una comunità di stati accomunati dall’accesso a un mercato unico di 500 milioni di persone, a una sempre più ristretta cerchia di stati e istituzioni sovranazionali. Il Regno Unito è anche tra gli stati membri che vogliono fortemente l’integrazione del mercato unico. Una spinta politica utile per rilanciare il progetto europeo.

È proprio la diversità dei paesi membri e la combinazione di istituzioni intergovernative e sovranazionali che contraddistingue il mercato unico europeo e lo rende fonte primaria di potere politico (soft power) per risolvere problemi anche di portata mondiale. I recenti accordi sui cambiamenti climatici ci hanno fatto assaporare un po’ del potere che un’Europa unita potrebbe esercitare sul resto del mondo. C’è ancora molto da fare per stabilizzare l’Europa, ma con il giusto mix di istituzioni sovranazionali e intergovernative può davvero diventare la vera superpotenza del XXI secolo. Il referendum su Brexit può portarci indietro di 50 anni o proiettarci nei prossimi cinquanta.

Twitter @diegovaliante