La lettera da Bruxelles e le incoerenze italiche tra deficit (buono) e debito (cattivo)

scritto da il 12 Marzo 2016

La lettera spedita al Governo italiano dalla Commissione Europea ci riporta alla terribile estate del 2011, quando fu la Banca Centrale Europea – guidata allora dal francese Jean-Claude Trichet – a scrivere una dura missiva al presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, incapace allora di prendere le contromisure contro la crisi di fiducia sul debito pubblico.
Berlusconi – tradito dalla sua maggioranza e sfiduciato giustamente dai mercati finanziari – fu poi costretto a dimettersi nelle mani del presidente Giorgio Napolitano nel novembre dello stesso anno. Re Giorgio non perse tempo e diede l’incarico a Mario Monti, il quale contribuì fattivamente alla ricostruzione della fiducia verso il nostro Paese (lo spread BTp-Bund scese velocemente da 575 punti base ai circa 300 del primo trimestre 2013).

Fortunatamente quest’ultima missiva ha un tenore più lieve. I ministri dell’Eurogruppo avevano evidenziato già lunedì che l’Italia (insieme ad altri sei Paesi) rischia di non rispettare le regole del Patto di Stabilità: negli ultimi quattro mesi il governo Renzi ha adottato “misure che hanno aumentato il deficit pubblico”. I ministri delle finanze europei hanno ribadito che “anche in caso di concessione massima della flessibilità richiesta, rimane il rischio di una significativa deviazione” dei conti pubblici rispetto al cammino tracciato verso il pareggio di bilancio”. Nel comunicato si legge: “Gli Stati membri i cui piani sono a rischio di non rispetto delle regole del Patto di Stabilità dovrebbero prendere, in modo tempestivo, ulteriori misure per rispondere ai rischi individuati dalla Commissione Europea”. Se l’Italia non contiene il deficit, non riesce neppure a ridurre il passivo di un ventesimo all’anno (come previsto dal Fiscal compact per i Paesi che hanno rapporto debito/Pil superiore al 60%).

Nella missiva – a firma del vice presidente della Commissione europea Valdis Dombrovskis e del commissario agli affari monetari Pierre Moscovici – Bruxelles non chiede una manovra di finanza pubblica, ma si aspetta da Roma entro il 15 aprile dettagliate misure di risanamento.

Mentre il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan già lunedì ha minimizzato – “la lettera fa parte della procedura standard, non sono preoccupato, me lo aspettavo” – mi sono tornate in mente le considerazioni di Fabrizio Saccomanni – già direttore generale della Banca d’Italia nonché ministro dell’Economia del governo Letta – il quale ha sottolineato la discrasia e l’incoerenza nel dare un valore positivo al deficit (basta austerity, viva il deficit spending che ci porta crescita) e un valore negativo al debito (che pesa sulle nostre spalle e soprattutto sulla generazione successiva).

Scrive l’ex ministro: “La ragione di fondo per cui non si riesce a trovare un consenso internazionale sulla gestione delle crisi debitorie è anche l’atteggiamento schizofrenico con cui, in tutti i Paesi, le opinioni pubbliche e i Parlamenti guardano a due variabili che sono invece strettamente correlate, ossia il debito pubblico e il deficit del bilancio statale. Il debito viene visto in genere come un gravame per l’economia, un freno alla crescita e un’ipoteca sulle generazioni future. Il deficit di bilancio, invece, viene visto come un fattore positivo, uno stimolo all’attività economica e alla crescita, un sostegno all’occupazione” (Introduzione al volume di Sergio Romano, Breve storia del debito da Bismarck a Merkel, Einaudi, 2015).

Visto che l’Europa fa presente che, oltre al debito, l’Italia non adempie sul fronte della competitività, è utile riprendere ancora Saccomanni: “Entrambe le caratterizzazioni contengono elementi di errore. Se il debito è stato accumulato per investimenti nel capitale umano, nelle infrastrutture, nelle innovazioni tecnologiche, esso genera i presupposti per la sua sostenibilità e la sua riduzione man mano che gli investimenti generano i frutti attesi. Per contro, se il deficit viene utilizzato per finanziare spese correnti, agevolazioni, incentivi a pioggia e sprechi vari, l’impatto sull’economia sarà temporaneo e comunque modesto in termini di crescita e di occupazione”.

Se il debito è la sommatoria dei deficit dei singoli anni, come facciamo a gioire per l’ottenimento di una deroga (l’ennesima) di Bruxelles che ci consente di aumentare il deficit, quando ai nostri figli lasceremo un debito ogni giorno più grande?

Un interessante paper scritto da due giuristi – “Origine politica ed ‘evoluzionismo’ negli assetti di governo delle imprese”, di Sergio di Nola e Massimiliano Vatiero – invita a riflettere sulle scelte politiche a danno delle generazioni successive. Questo il passaggio chiave: “I due partiti perno del sistema politico fino all’avvento della cosiddetta Seconda Repubblica erano interessati a massimizzare l’egemonia sulle rispettive aree subculturali di riferimento e in caso di crisi potevano “regolare” la degenerazione dell’intermediario accollandone la ristrutturazione alla collettività, mediante incrementi della spesa pubblica (traslando, in definitiva, il costo sulle generazioni future)”.

Meno male che l’Europa limita le politiche di deficit spending altrimenti chissà quale sarebbe il rapporto debito/Pil!

Twitter @beniapiccone