L’euro debole non serve più. O forse ci siamo dimenticati un pezzo?

scritto da il 08 Aprile 2016

Si sta facendo strada l’idea che, per quanto la “debolezza” dell’euro possa essere uno stimolo all’export, l’importanza di tale stimolo vada a ridursi fino a livelli addirittura trascurabili.

L’idea in sé ha alcune ragioni che sono state raccontate anche da Paolo Bricco sul Sole 24 Ore del 1 aprile (“Opportunità per gli investimenti. Impatto ancora limitato sull’export”). In termini semplici, ci stiamo muovendo verso gradi maggiori di apertura, importando quote sempre maggiori di materie e semilavorati da aree economiche (e valutarie) a cui sarà poi diretto l’export della produzione conseguente. I vantaggi all’export manifatturiero dati da un ribasso dell’euro sembrano quindi sempre più compensati dai maggiori costi dell’import, e viceversa, visto che le catene produttive si fanno sempre più globali.

Questo significa che, anche volendo, il canale del deprezzamento del cambio non sarà più quella soluzione macroeconomica che tanti hanno finora sostenuto, naturalmente purché non si parli di movimenti enormi dei tassi di cambio (un cambio euro-dollaro oltre 1,50 probabilmente farà sempre e comunque molto “male”). A questo si aggiunge che il rafforzamento dell’euro potrebbe rendere le imprese europee più forti nell’insediare impianti all’estero o acquistare direttamente imprese estere, potendo così costruirsi proprie catene di valore internazionali in qualche modo protette dai movimenti del tasso di cambio. Il messaggio di fondo è quindi che più il mondo si evolve e più uno stimolo all’economia potrebbe arrivare da un… apprezzamento dell’euro.

Alcune analisi, ad esempio “No longer needing a weak euro”, di Crédit Suisse, rimarcano il punto evidenziando come la fase di ripresa manifatturiera dell’Area Euro a partire dal 2013 sia stata effettivamente poco sostenuta dalle esportazioni, rivelandosi piuttosto guidata dalla domanda interna. Staremmo cioè assistendo alla mutazione da economia export driven ademand driven come molti in realtà da tempo auspicano sia per l’Europa in generale che per altri specifici player (Cina, Germania).

Questo rende l’area europea meno sensibile a un eventuale indebolimento della domanda estera, ma porta anche ad attendersi che la politica monetaria europea si muoverà sempre più su obiettivi interni di inflazione o di stimolo alla domanda interna (con il passaggio intermedio del credito bancario) e sempre meno su considerazioni relative al valore esterno dell’euro (obiettivo comunque non definito dalla Banca Centrale). Infine lo studio di Crédit Suisse puntualizza pure che la dinamica della domanda interna europea risente della dinamica dei prezzi al consumo: la bassa inflazione, e ancor di più la deflazione, hanno un ruolo nel sostenere il potere d’acquisto delle famiglie. Questo significa che le politiche monetarie inflazionistiche perdono ulteriore appeal, ed anzi potrebbero divenire controproducenti perché indebolirebbero proprio la domanda interna.

Da quanto sopra ne esce un quadro controintuitivo dove sembra diventare perfino auspicabile un apprezzamento della valuta, con un totale ribaltamento del paradigma classico della politica monetaria.

È una lettura suggestiva, anche troppo strana per essere vera. Sconta un livello di aggregazione forse troppo “alto”. A un livello appena meno aggregato infatti potremmo ragionare di settori tradable che “competono” su un mercato mondiale, e non-tradable essenzialmente rivolti alla domanda interna. Negli ultimi anni i tradable per definizione sono i settori dell’informatica, dell’innovazione e dell’alta tecnologia, settori con un livello di produttività molto alto – la competizione mondiale si fa sentire – ad alta intensità di capitale umano (formazione conoscenza e creatività) ma non di lavoro, e con catene produttive molto “globalizzate”.

Per converso i settori non-tradable hanno tendenzialmente alta intensità di lavoro ma non necessariamente di capitale, con una produzione fortemente localizzata. Nel 2013 Enrico Moretti ha trattato questo punto in “La nuova geografia del lavoro” (originale del 2012: “New Geography of Job”), riportando interessanti conclusioni. In particolare, i moderni settori tradable che “tirano” rappresentano una quota minoritaria dell’economia (complessivamente i tradable rappresentano meno di un quarto del PIL, in Italia si stima fino a circa il 10%): grazie alle articolate necessità di divisione del lavoro, alla loro produttività ed alla più elevata remunerazione che ne consegue, per ogni posto di lavoro creato in questi settori se ne creano nell’area geografica circostante fino a cinque nei settori non-tradable (supporto o conseguenza dei primi); le industrie più classiche ne creano uno e mezzo.

Se consideriamo questo, l’evoluzione che si sta osservando potrebbe avere meno a che fare con un ribaltamento del paradigma di politica monetaria e più con gli sviluppi e conseguenze dei settori high tech. Le crisi economiche vengono proprio per “pulire” le economie da aziende e settori più deboli, così che possano venire sostituite da settori e aziende più avanzate e produttive, ricollocando altrove le attività meno produttive.

Dal 2008 abbiamo effettivamente assistito ad una certa riallocazione delle attività a livello mondiale, concentrando in Asia ma pure nell’est Europa le produzioni a maggiore intensità di lavoro e minore valore aggiunto; in accordo con l’analisi di Moretti, dobbiamo aspettarci che il rafforzamento o concentrazione dei settori più avanzati nel mondo occidentale possa trascinare anche occupazione e stipendi dei settori non-tradable, con un rilevante effetto moltiplicatore sull’occupazione e quindi sulla domanda interna, aggiungendo che la domanda interna viene contemporaneamente aiutata anche dalla dinamica contenuta dei prezzi al consumo, che a sua volta è effetto proprio della concentrazione in Asia delle attività a minor valore aggiunto.

Quanto puntualizzato, assieme alla considerazione che il “valore” riconosciuto di una produzione supera – entro centri limiti – l’effetto sui prezzi di variazioni relativamente contenute dei tassi di cambio, contribuisce a spiegare le “stranezze” della politica monetaria non come un mutamento di paradigma, ma come il risultato della maggior rilevanza degli effetti di altri fattori reali come la globalizzazione, lo sviluppo tecnologico e le dinamiche più di dettaglio di specifici settori.

Forse adesso qualcuno tirerà un sospiro di sollievo, perché la mia integrazione implica che le politiche monetarie e valutarie avranno comunque un effetto che oggi è semplicemente “sommerso” da altri effetti. Ma avverto che dall’analisi di Moretti discende anche che i nuovi settori tradable hanno la tendenza a svilupparsi in cluster (distretti) fortemente localizzati, concentrati e poco “contendibili”, e che la determinazione dei punti di aggregazione è già piuttosto avanzata. Il fenomeno è ben definito negli USA e si sta ora sviluppando in Europa.

Quei risultati così particolari sulla resilienza aggregata dell’economia europea a shock valutari e debolezze dell’export potrebbero nascondere forti sperequazioni regionali che si dispiegheranno a pieno nel tempo. E l’Italia – figuriamoci – in questo senso non sembra molto ben posizionata sia per l’assenza di “poli attrattivi” che per le dimensioni contenute delle imprese più innovative… e questo senza aver ancora fatto i conti con un serio rincaro del petrolio e conseguente effetto negativo sulla domanda aggregata (alla faccia di chi professa ancora che “inflazione è bello”).

Concludendo, la politica monetaria esercita effetti dipendentemente dal lato della frontiera tecnologica da cui la guardi. La politica monetaria non risolverà mai alcun problema che risiede nell’economia reale. Il vero paradigma da cambiare è nella testa dei governanti.

Twitter @LBaggiani