Walter Tobagi e il “problema di arrivare alla verità, a qualunque costo”

scritto da il 27 Maggio 2016

Il 28 Maggio di 36 anni fa i brigatisti uccidono senza pietà davanti a casa il giornalista del Corriere della Sera Walter Tobagi, che con ostinazione persisteva nel sostenere che i terroristi “non sono samurai invincibili”. Chi sparò a Tobagi fu Marco Barbone, che faceva parte della Brigata 28 marzo, così chiamata in onore (sic!) dei quattro terroristi uccisi quel giorno del 1980 in via Fracchia a Genova in uno scontro a fuoco con i carabinieri dell’Antiterrorismo – guidati dal generale Carlo Alberto Dalla Chiesa – che avevano fatto irruzione nel loro covo.

Nella confessione che gli valse la libertà (grazie alla legge sui pentiti), Barbone disse: “Bisognava mettere nel mirino quei cronisti che potevano essere il nostro bersaglio per tre ragioni: le testate nelle quali lavoravano, il loro preciso schieramento contro il partito armato, la validità delle analisi che elaboravano”.

Così scrive Giampaolo Pansa nel volume “Il rompiscatole” (Rizzoli, 2016): “Nella Brigata 28 marzo era destinato a spiccare Marco Barbone, un bamboccione di ventidue anni, nato a Bari e arrivato a Milano al seguito del padre Donato, dapprima direttore editoriale della Laterza e in seguito capo dei libri della Mondadori. Dunque non era affatto un proletario, ma l’esatto contrario. Era figlio della borghesia intellettuale o, per essere precisi, di quella parte che si riteneva l’incarnazione migliore della sinistra, la più radicale. Disposta, almeno a parole, alla rivoluzione contro il capitalismo che la manteneva e le consentiva uno stile di vita irraggiungibile per qualsiasi operaio o impiegato”.

La banda di Barbone aveva selezionato tre giornalisti. Il primo era Marco Nozza, inviato speciale del Giorno – autore del bellissimo volume “Il pistarolo” -, il secondo era Giampaolo Pansa. Il terzo era Tobagi, il più giovane del terzetto.

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Tobagi venne scelto solo perché era più abitudinario. Viveva e abitava a Milano. Ogni mattina, per arrivare al “Corriere”, andava a prendere l’auto in un garage vicino a casa. Faceva sempre lo stesso percorso. Come scrive Pansa, “il 28 maggio 1980 era un giorno di pioggia. Walter uscì di casa con l’ombrello aperto. Fu un gioco da bambini ucciderlo”. Tobagi aveva una curiosità fuori dal comune. Come ha raccontato Leonardo Valente, “Walter preparava gli articoli con la stessa diligenza con cui al liceo faceva le versioni di latino e greco e all’università si dedicava alle ricerche storiche: una montagna di appunti, decine e decine di telefonate di controllo, consultazione di leggi, regolamenti, enciclopedie. Insomma svolgeva una mole di lavoro enorme per un pezzo di due cartelle. Ma quando finalmente si metteva alla macchina da scrivere si poteva esser certi che dal rullo sarebbero uscite due cartelle di oro colato. […] Il suo solo problema era di arrivare alla verità, a qualunque costo”.

Nelle mie ricerche sulla figura del governatore Paolo Baffi, nell’Archivio della Banca d’Italia (ASBI) – che gli storici dovrebbero frequentare più spesso – ho trovato un’intervista di Tobagi all’amministratore delegato della Banca Commerciale Italiana, Francesco Cingano – validissimo banchiere, cresciuto alla formidabile scuola di Raffaele Mattioli. Già nel 1979 Tobagi toccò il tema bancario interessandosi delle indagini sul Banco Ambrosiano seguite da Emilio Alessandrini, sostituto procuratore della Repubblica milanese, assassinato il 29 gennaio 1979 (che anno terribile il 1979! Vengono assassinati Alessandrini, Mino Pecorelli, Giorgio Ambrosoli, Boris Giuliano, senza dimenticare il proditorio attacco politico-giudiziario alla Banca d’Italia). Notevole l’omaggio di Alessandrini da parte di Tobagi sul Corriere dal titolo: “Vivere e morire da giudice a Milano”.

Alessandrini è colui che ricevette il rapporto ispettivo sul Banco Ambrosiano nel dicembre 1978 dal vice direttore generale (con delega alla Vigilanza) della Banca d’Italia Mario Sarcinelli, il quale non esitò a chiedere con insistenza a Roberto Calvi (che non gli diede mai nulla) informazioni dettagliate sulle partecipate estere del Banco.

Così rispose a Tobagi il banchiere Cingano il 17 maggio 1980 (ASBI, Carte Baffi, Governatore onorario, cart. 12, fasc. 25), undici giorni prima dell’agguato: “Se il sindacato ha un senso, è proprio quello di incidere sulla realtà sociale, di promuovere, correggere. […] È circolata molta cattiva ideologia […], si sono accettate definizioni, come quella del salario variabile indipendente, che non erano assolutamente razionali e neppure fantasiose. […] Ci sarebbero piuttosto valori fondamentali che andrebbero riconquistati. Una delle maggiori responsabilità del decennio è proprio il tentativo di distruggere il concetto di impresa. È stato un attacco ispirato dall’odio pseudoromantico, l’odio contro il padrone. […] Nel pieno delle tensioni sociali, l’avversione all’impresa è diventata odio contro tutto ciò che è produttivo, organizzato. E si sono create situazioni drammatiche come il distacco di chi lavora nell’impresa stessa: è un rapporto di alienazione, che ha prodotto conseguenze enormi sulla produttività, portandoci allo Stato assistenziale».

Parole sante.

Leo Valiani così ricordò Walter Tobagi: “L’Italia repubblicana non ha fatto, sotto i colpi del terrorismo, la stessa fine dell’Italia liberale sotto i colpi dello squadrismo. I politici, i sindacalisti, i magistrati, i poliziotti ed i carabinieri, i giornalisti, e le grandi masse del paese, hanno imparato qualche cosa dall’amara esperienza del primo dopoguerra. Se hanno saputo difendere la Repubblica, lo si deve anche ad uomini come Tobagi ed al loro sacrificio. Buono, generoso quale era, se fosse rimasto in vita, Tobagi non se ne vanterebbe. Ma noi gli dobbiamo sempre un accorato omaggio”.

Ti sia lieve la terra, caro Walter Tobagi.

Twitter @beniapiccone