Perché sulla riforma del lavoro Italia e Francia sono poco confinanti

scritto da il 01 Giugno 2016

Pubblichiamo un post di Silla Cellino, consulente del lavoro e blogger. Cellino scrive su riviste specializzate professionali, sul suo blog ionis56.blogspot.com e su Pensalibero.it

Lo striscione con cui i lavoratori della CGT francese si augurano di non fare con la Loi Travail la stessa fine degli italiani col Jobs Act si è rivelato un clamoroso falso, costruito nemmeno con abilità, visti gli errori di lingua in cui gli ideatori dello stesso sono incappati. Tuttavia resiste un’opinione comune secondo la quale i lavoratori francesi contrastano l’approvazione e poi l’attuazione della nuova legge per gli stessi motivi per cui il sindacato italiano ed anche ambienti politici contigui, nel loro complesso, non approvano il Jobs Act fin dai suoi fondamenti. Opinione del tutto errata, solo a considerare le diverse basi di partenza delle due riforme ed i rispettivi obiettivi da perseguire.

Detto ciò, partiamo dall’unico punto di contatto che i due provvedimenti sembrano avere, cioè la revisione dei trattamenti di licenziamento, considerando le esigenze da cui origina la riforma sia in Italia che in Francia. La partenza può apparire comune: un approccio prevalentemente tecnico con volontà/necessità da parte del legislatore di limitare, anche agli effetti delle risultanze giudiziali, l’insorgenza di costi considerati eccessivi in caso di licenziamento.

Poi però intervengono contenuti politici, che in Italia e in Francia assumono caratteristiche diverse e di diversa gradazione: da noi l’indirizzo politico si è incentrato verso un progressivo sfaldamento dell’articolo 18, individuato come limite alla mobilità del mercato del lavoro e freno alla elasticità delle aziende; in Francia invece il problema ha dimensioni minori, considerando anche un’incidenza del lavoro a tempo determinato nettamente superiore a quella che si verifica in Italia e pertanto la questione assume una rilevanza tecnica al di là di quella sociale. Lo dimostra in particolare l’attenzione rivolta alle singole fattispecie che possono determinare il ricorso alla riduzione di personale e ai parametri di riferimento per la fissazione delle indennità.

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Del resto non è su questi argomenti che si è incentrato il nucleo duro della protesta, che ha seguito passo passo l’evolversi della proposta riformatrice fin dal suo primo manifestarsi, poi, nei successivi sviluppi, anche le marce indietro e gli arresti. Tra l’altro, a differenza dell’unità di facciata italiana, il movimento sindacale francese si presenta meno compatto lasciando prevalentemente alla CGT ed alle organizzazioni studentesche il maggior carico della protesta, ma il nocciolo duro delle questioni sta in argomenti che solo in scarsa misura possono ricollegarsi all’opposizione che in Italia si è registrata nei confronti del Jobs Act. Credo che la ragione principale sia nei contenuti – e un po’ anche nella qualità – della riforma proposta.

Ne accenno en passant, magari con la disponibilità a tornarci sopra anche punto per punto, se a qualcuno interessa.

La prima questione in ballo è la filosofia della riforma che opera un primo rovesciamento culturale: l’epicentro della contrattazione collettiva, per quanto riguarda la gestione del rapporto di lavoro, tende a trasferirsi a livello aziendale. Non è un assioma, ma la conseguenza di una norma che si vuole introdurre, la quale condiziona la validità dei contenuti della contrattazione alla sussistenza e al mantenimento di rappresentatività delle parti che hanno siglato l’intesa, a tutti i livelli, a partire appunto dalla contrattazione aziendale, che è quella più immediatamente verificabile. C’è chi ci vede un rovesciamento della tradizione centralista francese, il che è possibile, ma personalmente preferisco pensare a un approccio pragmatico e che comunque abbia come obiettivo, da parte del governo, quello di superare un rapporto esclusivo con le centrali sindacali, con i rischi di burocratismo che questo tipo di rapporto comporta.

Un altro aspetto degno di attenzione è l’istituzione del CPA, conto personale di attività. Uno strumento che mira, secondo il progetto governativo, a consentire a ciascuno, lavoratore dipendente o autonomo, di costruire il proprio percorso professionale attraverso la certificazione delle competenze individuali, ma anche del suo rapporto complessivo, non meramente lavorativo, con gli scenari in cui opera o ha operato. Magari il rischio è che si tratti di una impostazione illuministica, nel senso che la sola definizione sconta l’effettiva attuazione. È importante però che si sia cominciato a pensar di operare su una base oggettiva di dati rovesciando la logica, partecipativa e non più burocratico/assistenziale; rischio che invece in Italia non si riesce a esorcizzare con l’ANPAL (l’Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro), ancora in fase di ante decollo.

Pochi e sommari esempi, ma sufficienti a rendersi conto dell’inutilità anche politica di fare paragoni, specie se a puro scopo di polemica e propaganda, senza curarsi del contesto. Semmai per noi italiani resta una considerazione: intervenire sulla dicotomia tra lavoro dipendente e non dipendente, valorizzare la contrattazione di prossimità in alternativa al burocratismo delle centrali, sviluppare l’agilità del lavoro furono intuizioni di Marco Biagi, alle quali non è seguita da noi alcuna legislazione conseguente, sotto nessuna maggioranza, tra quelle che si sono succedute nel secolo presente. Riflessione doverosa, autoconsolatoria però no.

Twitter @sillacellino