La letteratura italiana e l’impresa, un rapporto difficile

scritto da il 09 Luglio 2016

Nel suo ultimo volume “Ai confini dell’economia” (Aragno, 2016), il già membro del Direttorio della Banca d’Italia Pierluigi Ciocca – intellettuale raffinato – ha analizzato il rapporto tra letteratura e impresa: “Nei romanzi possono riflettersi atteggiamenti, individuali e sociali, verso l’economia di mercato capitalistica quale si è venuta affermando e evolvendo, ad esempio in un paese latecomer come l’Italia: contezza o trascuranza, accettazione o critica, esaltazione o rifiuto del nuovo modo di produzione, dei suoi valori e disvalori, dei conflitti e delle condivisioni, delle istituzioni, della politica, in ultima analisi della cultura, che alle strutture e agli sviluppi di quel sistema economico si sono associati”.

Ciocca parte dalle considerazioni di Deirdre McCloskey, sostenitrice dell’importanza dei valori borghesi quale fonte della ricchezza delle nazioni. E nel leggere i romanzi italiani le virtù borghesi non vengono riconosciute. Spesso nei confronti dell’economico prevale l’avversione.

Pierluigi Ciocca

Pierluigi Ciocca

Anche lo storico Lucio Villari ha fatto notare che “la letteratura finisce con il separarsi irrimediabilmente dall’economia. L’ideale intellettuale della Nazione si dissocia dai temi della crescita, del mercato, dello sviluppo”.

Perfino gli Anni Sessanta, gli anni del “miracolo economico”, la trasformazione del Paese da agricolo in industriale, passano sotto silenzio, per nulla apprezzati, nella letteratura italiana. Secondo Ciocca “la questione meridionale” ha pesato sulla cultura italiana, che ha continuato a lamentare il divario rispetto al Nord anche nel 1950-70, quando il Sud cresceva più rapidamente del Nord. La stessa etichetta di “miracolo” attribuita allo sviluppo economico rapidissimo in quel periodo allude all’inatteso, al casuale, al fragile”.

L’estate scorsa ho rinvenuto in un bel romanzo di Edoardo Nesi – cantore dei piccoli imprenditori delle tante Prato d’Italia – “L’estate infinita” (Bompiani, 2015) l’elogio della forza imprenditoriale italiana.

“L’Estate infinita”, che narra le vicende imprenditoriali di Ivo Barrocciai, è una macchina del tempo che riesce a ricondurci al ricordo potente d’un passato prossimo colmo di futuro. Quando l’Italia era innamorata della vita e delle sue passioni, talentuosa e frenetica.

Edoardo Nesi “sente” l’impresa e gli imprenditori, quelli che non hanno altro nella testa che la produzione e la fatica: “Son tutti la solita gente. Vengono dal popolo, e dal lavoro, e in vita loro non hanno fatto altro che ingegnarsi e faticare. Non ce n’è uno che sia di famiglia ricca, quasi tutti hanno avviato da garzone o da operaio, poco dopo la guerra, e i soldi che hanno in tasca vengono dalla manifattura […] un’abilità e una sostanza del cuore, pulsante, brillante, quasi magica, e italianissima. Non sono furbi, perché la furbizia non serve a granché in un mondo senza scorciatoie, ordinato da regole semplici e durissime: se vogliono guadagnare di più devono solo investire nella loro aziendina per farla crescere.
[…] Non sono nemmeno i migliori, i favoleggiati vincitori di un’ideale processo di selezione che li ha infine dichiarati i più adatti a intraprendere tra milioni e milioni di bocciati: nell’unico paese al mondo il cui l’imprenditoria è un fenomeno di massa sono, molto semplicemente, quelli che ci hanno provato e ai quali è andata bene – a volte benissimo – quando male era difficile che andasse, in un mercato libero e aperto. Darwin, a questa gente, gli fa una sega”.

C’era un futuro che non finiva mai, dice Nesi. Oggi, sconfortati da una globalizzazione che ci vede sconfitti come sistema, non in grado di adeguarsi alla rivoluzione demografica e high tech mondiale, possiamo dire mestamente con Paul Valéry ”Il futuro non è più quello di una volta”.

Twitter @beniapiccone