Cioccolatieri, non cioccolatai. La via italiana

scritto da il 31 Luglio 2016

Fare la figura del cioccolataio, in gergo, implica fare una figuraccia. Forse i “cioccolatai” italiani han qualcosa da insegnare, in termini di figures (numeri), alle Pmi italiane che vogliano far soldi all’estero. Dati alla mano l’Italia è il quinto paese per export di cioccolato con una quota mondiale del 6,1%, per un valore di poco meno di 2 miliardi di dollari. L’associazione europea dei cioccolatai riporta dati in crescita per la produzione di questo prodotto e la sua lavorazione sul territorio dell’Unione. Quanto a noi italiani, crescere non costituirebbe un’eccezione. Secondo previsioni Prometeia, complessivamente l’export nazionale alimentare e di bevande potrebbe segnare fino al +22% nei prossimi 5 anni, sfiorando i 37 miliardi di euro nel 2020.

E insomma, mi son chiesto, ma sto cioccolato chi se lo compra? O meglio a chi lo vogliamo vendere? Mi è venuto il pallino di ragionare con un paio di “spacciatori” di cioccolato tanto per capire se ci sono opportunità all’estero per le nostre Pmi orientate alla qualità per uno dei prodotti più dolci (con l’aggiunta di zucchero si intende) del mondo.

In sostanza, il concetto di made in (Italy) associato al concetto di made by (Italians): intendo con questo tutti quegli standard, approcci operativi e “ingegnerizzazione” che possono essere esportati all’estero e riprodotti al fine di valorizzare la qualità italiana (e il made in Italy) nel mondo. Ho pensato di fare due chiacchiere con due maestri del genere.

Lo chef Ernst Knam, che fatti due conti ha investito la sua vita lavorativa in Italia, vive di cioccolato. Lo produce, lo vende, ci fa trasmissioni. Un cioccolataio, o meglio cioccolatiere, doc.

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Cioccolato italiano all’estero ci sta?
Ogni paese ha un suo mercato. Io non rivendo il cioccolato. Io trasformo qualcosa in qualcosa di eccellente. Devo avere chi lo compra. Ogni paese ha una cultura diversa un esigenza diversa. Io faccio un prodotto di lusso. Se io esporto il mio prodotto all’estero, devo conoscere la piazza. Quello che faccio qui a Milano potrebbe non funzionare. Il mio prodotto funziona nei paesi asiatici. Arabi. Funziona in Giappone, Russia, e Cina. Andare io lì non funziona. Devi trovare una persona che conosce il paese. Il marchio made in Italy è il più richiesto in tutto il mondo. La cucina italiana è la migliore al mondo.

Gusti altrui?
Se io porto il cioccolatino a Dubai lo faccio ricoperto da un foglio d’oro. Posso aprire in qualsiasi città ma devo adeguarmi come un camaleonte. Se entri in un nuovo mercato devi creare ciò che piace ai tuoi clienti, instillare piccole dosi di “diversità” e poi educarli ai gusti stranieri.

Costi della materia prima?
Le fave di cacao si pagano 80-90 centesimi al kg. Lavate tostate aggiungiamo lo zucchero e arriviamo a 1-1,1 euro al kg di cioccolato. Arrivato in Italia proposi a 10 pasticceri della mia zona di comprare insieme il cioccolato, economia di scala e risparmiavamo. Mai riuscito: tutti eran gelosi delle loro produzioni. Ho riscontrato questa tendenza in Italia, i commercianti possono essere molto individualisti.

Criticità italiane?
I cioccolatieri italiani in molti casi stan tutti chiusi tra di loro, sulle loro riviste. A me non interessa solo il mercato di nicchia, il mio prodotto è di élite per qualità e lavorazione, ma deve poter raggiungere tutti. E la mia rimane comunque un’attività commerciale, se la gente non mi conosce non mi compra. Stessa cosa all’estero.

Un cioccolataio non mi bastava per capire se ci son soldi da fare per i processatori italiani del lusso (leggasi spacciatori di cioccolato, gelati e affini). Ho quindi pensato di far due chiacchiere anche con Vincenzo Ferrieri, patron di Cioccolati italiani. Un gruppo nato da pochi anni che si sta espandendo con impeto verso il medio oriente.

Schermata 2016-07-31 alle 13.44.27Emiri e cioccolato? A quel che si legge ci son soldi da fare in medio oriente (mezzo miliardo di dollari di import di cioccolato nel solo nel 2015).
Il medio oriente è sicuramente uno scenario molto interessante. Quando ho iniziato a esaminare il territorio, ho rilevato un gap di mercato significativo: una domanda crescente di prodotti alimentari made in Italy supportata da un’ottima conoscenza delle materie prime e delle eccellenze enogastronomiche italiane. Il territorio, allora, era già presidiato da una grande quantità di brand internazionali, ma il mercato del gelato era ancora da costruire.

Siamo tra le prime 5 nazioni per export di cioccolato, ma come funziona per voi?
Alla base della nostra filosofia aziendale c’è l’esportazione del made in: le materie prime utilizzate nei nostri store, locali ed esteri, provengono tutte dall’Italia. Tuttavia, il vero differenziale competitivo del format è stato l’esportazione del nostro made by, la tecnica tutta italiana di lavorare la materia prima, combinarla e valorizzarla al massimo. La nostra strategia prevede un training specifico del personale, prima in Italia e poi all’estero, in modo tale da trasferire le tecniche di lavorazione e trasformarlo in ambasciatore del nostro know-how. Il nostro obiettivo principale non è quello di esportare il prodotto nostrano, bensì quello di affermare una cultura di lavorazione e di consumo all’italiana.

Sfruttamento, prodotti, costi (leggasi sopra l’opinione di Knam): come operate nella lavorazione?
Per preservare il sourcing made in Italy lavoriamo a stretto contatto con un team di artigiani ed esperti che operano con le eccellenze gastronomiche del nostro paese. Prendiamo i migliori ingredienti e li lavoriamo con cura, ne rispettiamo le caratteristiche per valorizzarne qualità e identità. L’integrazione a monte della filiera è una grande opportunità e, come tale, presenta i suoi rischi. Il rischio è prevalentemente legato alla sicurezza dell’investimento, l’integrazione a monte comporta un aumento dei costi non sempre sostenibile da una Pmi. D’altro canto, in una dinamica di lungo periodo della produzione, la verticalizzazione consente di presentarsi sul mercato con una visione globale e sostenibile, permettendo la costruzione di un’architettura di valore per il marchio i cui benefici superano di gran lunga i costi.

Piccoli imprenditori italiani crescono?
Le sfide per una Pmi in medio oriente sono quelle tipiche di un’impresa che prova a internazionalizzarsi. Prima di tutto la concorrenza dei brand esteri: un panorama di multinazionali che sono dei colossi nel loro settore. La seconda prova è quella della strutturazione: per affrontare un nuovo paese l’azienda deve adottare un approccio manageriale forte, deve comportarsi come una multinazionale pur non avendone la risonanza né le dimensioni.

Se esiste un modo per esportare la qualità della processazione alimentare italiana (il che in soldoni significa un intera filiera di produzione, con ad ogni step valore aggiunto e soldi per tutti), i cioccolatieri possono indicare la via.

Twitter @enricoverga