Gli intrecci tra immigrazione, salari e occupazione. Ne vogliamo parlare?

scritto da il 21 Settembre 2016

In una fase storica in cui il tema dei flussi migratori è al centro del dibattito italiano e internazionale, al fine di ridurre i costi sociali dell’immigrazione e di aumentarne i benefici sarebbe essenziale capire come si possa favorire la sfida decisiva dell’integrazione lavorativa dei rifugiati e degli altri immigrati presenti sul territorio.

Senza retorica, se i nuovi arrivati non riescono a trovare lavoro, i costi per la collettività aumentano così come l’insofferenza dei residenti. Ma attualmente gli immigrati incontrano due tipi di macro-ostacoli sulla strada della ricerca di un’occupazione. Ostacoli che sarebbe meglio cercare di rimuovere.

Dove non c’è flessibilità, c’è disoccupazione

In un recente studio. Guriev, Speciale e Tuccio cercano di dimostrare come la flessibilità salariale possa essere un rimedio per alleviare ed assorbire gli impatti di una crisi sui posti di lavoro. Lo studio compara le differenze tra il lavoro regolare ed irregolare in Italia, utilizzando i dati della Fondazione ISMU concernenti quattromila immigrati che hanno lavorato in Lombardia tra il 2001 e il 2013, un quinto dei quali impiegati nell’economia sommersa. I risultati confermano che i salari dei lavoratori regolari ed irregolari hanno iniziato a divergere cospicuamente dall’inizio della crisi (dal 15 al 27%), quando mentre i primi rimanevano pressoché stabili, i secondi crollavano del 20%. La ragione è intuitiva: nel lavoro irregolare la retribuzione può scendere senza vincoli normativi, cosa che ovviamente non può avvenire nel mercato del lavoro regolamentato. Ma cosa è avvenuto in quest’ultimo? Se i salari non si possono “aggiustare”, crescono i licenziamenti e crollano le assunzioni. Ed è proprio quello che è avvenuto nel nostro Paese.

Le conclusioni del paper consentono alcune riflessioni.

a) Gli effetti di una crisi si dispiegano anche sul mercato del lavoro, causando disoccupazione o decrescita salariale, a seconda del sistema vigente. Ma questo non accade uniformemente per tutte le classi di lavoratori. L’analisi empirica dimostra infatti come le professioni più qualificate soffrano meno, a differenza dei lavori manuali ad esempio. E proprio questi ultimi rappresentano la fetta più grossa dei lavori in cui sono impiegati irregolarmente gli immigrati, a causa di una scarsa scolarizzazione, di ragioni linguistiche o di problematiche giuridiche.

b) Lo studio si concentra sugli effetti della grande recessione, ma il ragionamento si può traslare anche ad una fase di lenta ripresa come quella attuale, nella quale non si riesce  a riassorbire i posti di lavoro andati in fumo. Inoltre, la riflessione non riguarda solo la situazione degli immigrati, ma in generale tutte le fasce più deboli della popolazione. Basti pensare alla disoccupazione giovanile o ai recenti dati Eurostat che indicano Calabria, Campania, Sicilia e  Puglia come le regioni con il tasso di occupazione più basso in Europa. La ratio di fondo è la medesima. L’equilibrio di mercato è distorto dalla regolamentazione, che sposta artificialmente l’incrocio tra domanda e offerta. Un lavoratore poco produttivo non giustifica da un punto di vista economico i costi di un’assunzione regolare. E chi sostiene che sia solo una questione di domanda aggregata dovrebbe fare maggiormente attenzione all’esplosione dei voucher lavoro.

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Muovendo da tali riflessioni, la flessibilità salariale potrebbe apportare dei vantaggi nel medio-lungo periodo (meno lavoro irregolare, meno spesa in ammortizzatori sociali, maggiori entrate per lo Stato nella forma di tasse e contributi), ma vi sono dei comprensibili timori politici e sociali che avversano una tale soluzione. Il rischio paventato sarebbe l’innesco di una corsa al ribasso dei salari, non solo al Sud. Guardando al caso tedesco, dalla riforma Hartz in poi, si può affermare che sicuramente la maggiore flessibilità ha contribuito ad un boom occupazionale superiore al 20% nel periodo 2003-2010, ma ha anche accresciuto le divergenze salariali tra i vari segmenti dell’occupazione, portando i lavoratori meno qualificati ad avere retribuzioni molto più basse in un mercato diventato più competitivo. Tornando all’Italia, la transizione sarebbe tutt’altro che semplice, poiché in tanti potrebbero trovarsi, prima facie, in una situazione economica peggiore rispetto a quella attuale.

Un aut aut triste, ma con questi tassi di crescita tertium non datur. 

Ostacoli di tipo giuridico

Gli immigrati possono finire nel mercato irregolare non solo per le ragioni sovraesposte, ma anche perché spesso non hanno i requisiti di legge per essere assunti regolarmente. A tal proposito risultano attratti dalle opportunità offerte dal nostro Paese, caratterizzato da un’economia sommersa stimata da alcuni al 25% del PIL. Si potrebbe ripensare ad ipotesi controverse come la sanatoria del 2012 o come la possibilità di denunciare il datore in cambio di un permesso di soggiorno (da rivedere totalmente in modi e forme), in modo da incentivare l’uscita dalla clandestinità. Ma sarebbero probabilmente pochi i datori disposti a regolarizzarli per le suddette motivazioni di tipo economico.

Ipotizzando invece una riduzione del lavoro irregolare e un contesto di flessibilità salariale, sicuramente troverebbero più facilmente lavoro, ma la controindicazione, secondo molti, sarebbe una corsa al ribasso delle retribuzioni. La ricerca è un po’ divisa sull’ultimo tema, tra chi sostiene effetti significativi sui salari e chi la neutralità. C’è anche chi, come Foged e Peri, studiando gli effetti dei rifugiati in Danimarca tra il 1991 al 2008, ha rinvenuto che l’arrivo degli stranieri abbia indirizzato i nativi verso lavori meno manuali e, qualche volta, con retribuzioni più alte. Dibattito aperto.

Conclusioni

Con la schiettezza provocatoria che lo contraddistingueva, Milton Friedman era solito definire la regolamentazione sul salario minimo come «the most anti-negro law», volendo comunicare il suo disappunto per le regole che impedivano agli immigrati o ai lavoratori a minor produttività (come erano gli afroamericani ai suoi tempi) di entrare nel mercato del lavoro regolare. Non è un problema di secondo piano, perché da esso può dipendere il successo di qualunque politica di integrazione. D’altro canto bisogna però tenere a mente che la flessibilità salariale causerebbe nel breve termine problemi economici a chi ha un lavoro. Il trade-off corre sul filo, ma lo status quo è altamente distorsivo e, con l’aumento degli sbarchi, potrebbe peggiorare.

Tuttavia, se non si vuole affrontare la sfida politica e sociale della flessibilità salariale, quantomeno si provi ad agire sulla riduzione strutturale e permanente del cosiddetto cuneo fiscale (che non risolverebbe le storture sopraelencate, ma potrebbe ridurre il nero o l’abuso di strumenti come i voucher). Finito il grande incentivo della decontribuzione 2015, il Governo sta pensando ad una proroga ad hoc delle decontribuzioni per gli under 29 o per il Sud. Vedremo, ricordando però che gli sgravi fiscali una tantum spesso riempiono solo gli occhi di fumo. Un fumo che può essere molto costoso.

Twitter @frabruno88