Servono al Sud le Zone economiche speciali?

scritto da il 23 Marzo 2017

In un articolo di Carmine Fotina apparso sull’edizione cartacea del Sole 24 Ore del 17 marzo, si parla del progetto del Governo di dare vita in Italia alle cosiddette Zone Economiche Speciali (Zes nel prosieguo), da localizzare ovviamente nelle regioni del Sud (Campania, Basilicata, Puglia, Calabria e Sicilia).

Si tratta di un’idea che ciclicamente si riaffaccia nell’arena politica delle intenzioni.

Le Zes hanno l’obiettivo di attrarre investimenti esteri o extra-regionali, attraverso incentivi, agevolazioni fiscali, deroghe normative etc.. Ne ha parlato anche la SVIMEZ in una recente audizione alla Camera, sostenendo che «Per rilanciare l’attrattività degli investimenti nei porti del Sud, da tempo la Svimez sostiene l’importanza di istituire delle Zone Economiche Speciali, per le quali, al di là delle iniziative intraprese dalle singole Regioni, sarebbe opportuno predisporre una intervento normativo nazionale che ne consentisse una implementazione in tempi brevi».

Naturalmente, esiste un ostacolo rilevante sull’adozione di un tale progetto, dettato dalla disciplina comunitaria sugli aiuti di Stato. Ma non sarà oggetto di quanto segue, anche per ragioni di spazio. Si può superficialmente osservare che sarebbe sicuramente un ostacolo, ma non necessariamente insormontabile.

Cerchiamo invece un po’ di capire i vantaggi o gli svantaggi economici dell’eventuale progetto, che potrebbe riguardare intere regioni o singoli distretti. Riporta l’articolo di Fotina che nel mondo «(…) si contano circa 2.700 Zes, Cina e Dubai gli esempi più noti. In Europa sono circa una settantina, 14 delle quali istituite in Polonia». Proprio la Polonia rappresenta un case study interessante, invocato come modello anche dalla stessa SVIMEZ.

In fabbrica a Mazowieckie (Polonia)

In fabbrica a Mazowieckie (Polonia)

La misura più importante delle Zes polacche è sicuramente la corporate income tax exemption che può oscillare tra il 25 e il 55 %, a seconda di una serie di variabili (ammontare degli investimenti programmati, numero di posti di lavoro che si verranno a creare, dimensioni dell’impresa, luogo dell’investimento). L’aliquota standard al di fuori delle Zes è fissata al 19%. Ci sono 14 aree in regime Zes, per un’estensione complessiva di quasi ventimila ettari. Per ottenere l’esenzione, le imprese richiedenti devono ricevere apposita autorizzazione, che è subordinata ad una serie di condizioni, come l’investimento minimo di 100.000 euro o il  mantenimento del business e della forza lavoro nell’area per almeno cinque anni (tre anni per le PMI). Se quanto dichiarato – in termini di posti di lavoro che si verranno a creare e di investimenti che intendono effettuare – non si verifica, l’impresa sarà condannata a restituire gli aiuti ricevuti.

Capite agevolmente le condizioni del beneficio, capirne gli effetti economici è ovviamente meno immediato. Un paper abbastanza recente sottolinea alcuni aspetti positivi delle Zes su occupazione e investimenti in Polonia nel periodo 2003-2012, anche al di fuori delle stesse Zes, in quanto una maggiore occupazione nelle Zes produrrebbe effetti positivi anche fuori la zona speciale, sia nella regione che ospita la Zes sia anche in quelle limitrofe. Più deboli i risultati degli effetti sugli investimenti, ma comunque positivi. Secondo un altro studio comparato sulle Zes invece, la loro introduzione in Polonia avrebbe contribuito ad una crescita media del PIL nelle regioni interessate pari al 4,12 %.  La crescita degli investimenti esteri sarebbe stata favorita dall’arrivo dei giganti dell’industria automobilistica come General Motors, FIAT (ci torneremo) e Toyota.

Sostiene poi  la SVIMEZ che «(…) di particolare importanza in Europa è il caso delle Zes in Polonia, che conferma la validità delle misure intraprese: tra il 2005 e il 2015, gli investimenti localizzati nelle Zes sono stati pari a circa 20 miliardi di euro, con un incremento di quasi 213 mila posti di lavoro». Nel Regional Competitiveness Index delle regioni meno sviluppate dell’UE, quelle polacche risultano essere più competitive rispetto a quelle italiane (rispettivamente sesto e tredicesimo posto, fonte SVIMEZ).

Tuttavia, questi risultati regionali positivi meritano comunque di essere contestualizzati negli altrettanti positivi dati macroeconomici dell’intera nazione polacca, che tra il 1992 e il 2008 è cresciuta in media di quasi il 4,5% e che ha resistito bene alla crisi del 2008. Ad esempio la regione di Mazowieckie (che include Varsavia) è passata da un PIL pro capite più basso del 17,1% rispetto alla media UE nel 2008 ad uno più alto dell’8,4% nel 2014. In generale, le regioni più sviluppate della Polonia hanno avuto una crescita del PIL pro capite del 111,3 % tra il 2001 e il 2014, contro un 95,7 % delle regioni più povere (fonte SVIMEZ).

Il caso polacco è interessante anche per via delle recenti dichiarazioni di Sergio Marchionne, che ha anticipato l’addio della Panda dallo stabilimento di Pomigliano, con produzione che potrebbe essere spostata in Polonia, nello stabilimento di Tychy (area Zes). Sorge spontanea la domanda: ma se Pomigliano o l’intera Campania fossero una Zes, avverrebbero comunque le delocalizzazioni? Di certo il Meridione italiano è caratterizzato da un gap di produttività maggiore di 30 punti rispetto al centro-nord, sebbene il costo del lavoro sia uguale. Attualmente non possono essere molte le motivazioni economiche per investire nel Mezzogiorno. Nonostante tale ultimo argomento sembri propendere in favore delle Zes, non bisogna però dimenticare che esistono già delle agevolazioni territoriali per il Sud, come le Zone Franche Urbane, che vedono importanti agevolazioni fiscali per i territori interessati, con risorse impegnate pari a diverse centinaia di milioni di euro.

In via generale, immaginando una normativa perfetta da un punto di vista giuridico ed economico, quali sarebbero i rischi sottesi all’introduzione delle Zes? L’assuefazione alla specialità. L’eventuale crescita economica ed occupazionale in regime di Zes potrebbe interrompersi bruscamente al termine del programma (che verosimilmente la Commissione Europea autorizzerebbe solo se temporaneo), a causa della debolezza socio-istituzionale che contraddistingue il Mezzogiorno, la quale è in grado di annullare o ridimensionare il vantaggio competitivo temporaneo.

Come non citare l’esempio dell’intervento straordinario trainato dalla Cassa per il Mezzogiorno, che contribuì ad una crescita straordinaria del PIL meridionale ed alla più importante convergenza nella storia d’Italia, ma che al suo terminare – causato anche dalla gestione diventata ormai politica e assistenzialistica – ha lasciato il territorio in balìa di una miseria dalla quale non si è più ripreso. Debolezza socio-istituzionale che si rinviene anche negli scarsi risultati prodotti dai miliardi spesi grazie agli aiuti comunitari. Vero è che le Zes nella forma di agevolazioni fiscali avrebbero il vantaggio di non aver bisogno dell’intermediazione politica per allocare i benefici (fonte di sprechi e dirottamenti verso il malaffare), ma restano comunque dei dubbi.

An employee monitors machinery used to adhere components to smartphone circuit boards in a manufacturing facility at ZTE Corp.'s headquarters in the Nanshan district of Shenzhen, China, on Thursday, Aug. 7, 2014. ZTE, a Chinese maker of telecommunications equipment and systems, is scheduled to report second quarter earnings on Aug. 20. Photographer: Brent Lewin/Bloomberg via Getty Images

Fabbrica di smartphone a Shenzhen

Si tratta di dubbi e timori tipici da analizzare quando si discute di Zes. Queste ultime possono rappresentare un successo solo qualora riescano a provocare trasformazioni strutturali nelle economie interessate, sostenibili nel lungo termine. Se ciò non avviene (come nel caso della Repubblica Dominicana ad esempio), si finisce per accentuare le distorsioni già esistenti. Le storie di successo delle Zes, come il “Miracolo di Shenzhen” dell’area di Hong Kong partito negli anni’80, sono perlopiù frutto di esperimenti di apertura al libero commercio in territori inizialmente restii ad avviare riforme economiche di stampo liberale.

Sono invece tanti i casi di fallimento. Ad esempio molte Zes africane non hanno prodotto i risultati sperati a causa della mancanza di infrastrutture e delle inefficienti burocrazie che hanno tenuto lontani gli investitori. La conseguenza di ciò è che l’introduzione delle Zes potrebbe stimolare positivamente nel breve periodo un’economia annaspante come quella meridionale, favorendo l’accesso di nuovi investimenti e crescite occupazionali, ma i nodi al pettine di lungo periodo – ex multis illegalità e mafia, gap infrastrutturale, pubblica amministrazione inefficiente – resterebbero tali. E con tale genere di nodi si rischia sempre di alimentare l’azzardo morale e protrarre sine die la menzionata assuefazione alla specialità.

Discutiamone dunque, ma non come se fosse una panacea.

Twitter @frabruno88