Le dieci regole del buon imprenditore, secondo Leopoldo Pirelli

scritto da il 26 Marzo 2017

Sono passati ormai 10 anni dalla scomparsa di Leopoldo Pirelli, gran signore dell’economia italiana. In molti hanno voluto ricordarlo (forse non abbastanza, forse non abbastanza bene) e anche io non voglio mancare a questo appuntamento.

Il mio unico e forte ricordo di Leopoldo risale agli anni universitari. Gli imprenditori eroi della mia generazione erano altri ma mi colpì molto un discorso, quasi preoccupato, di questo signore elegante che avvertiva i suoi colleghi confindustriali dei pericoli in una economia di mercato dell’eccessiva depenalizzazione del falso in bilancio voluta dal Governo Berlusconi. Ricordava che le transazioni si basano sulla fiducia e sulla correttezza dei dati. La mia percezione (forse deformata dal ricordo e dalla giovane età) è che la sua posizione rimase isolata e controcorrente rispetto agli entusiasmi dell’epoca. Se ne rese lui stesso perfettamente conto credo. Un po’ fuori moda, un po’ fuori tempo come in una canzone di Ligabue.

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La Pirelli invece entra prepotentemente nella storia della mia famiglia perché mio nonno fu dirigente alla Bicocca, nonno a cui Alberto Pirelli salvò la vita durante la guerra. Ma questa è un’altra storia che cito solamente per avvertire il lettore di un possibile conflitto di interessi, dichiarando apertamente le mie colpe in un possibile eccesso di indulgenza.

La cosa più importante però credo sia riproporvi le 10 regole del buon imprenditore in cui sintetizzò la sua esperienza di capitano di industria (un termine un po’ superato ma che credo in questo caso decisamente appropriato).

LE REGOLE del buon imprenditore.
Leopoldo Pirelli ha sintetizzato nei seguenti dieci punti l’esperienza maturata come capo esecutivo del Gruppo:

1. Sono sempre stato convinto che la libera impresa privata sia pilastro importante di un libero sistema e mezzo insostituibile di progresso sociale. Pur con sfaccettature diverse da paese a paese, in funzione delle situazioni socio-politiche locali, credo di poter affermare che è dappertutto in corso un processo di trasformazione gigantesco e radicale che travalica l’ambito della economia e investe l’intera società, scompaginandone gli assetti tradizionali e mettendola in movimento, alla ricerca di nuovi equilibri. Dappertutto va emergendo una stretta correlazione tra il processo di innovazione e l’iniziativa delle forze imprenditoriali. La nostra credibilità, la nostra autorevolezza, direi la nostra legittimazione nella coscienza pubblica sono in diretto rapporto con il ruolo che svolgiamo nel concorrere al superamento degli squilibri sociali ed economici dei Paesi in cui si opera: sempre più l’impresa si presenta come luogo di sintesi fra le tendenze orientate al massimo progresso tecnico-economico e le tendenze umane di migliori condizioni di lavoro e di vita.

2. Ho sempre creduto che un chief executive officer, che anche azionista, debba privilegiare la prima quailficazione, quella di chief executive officer, rispetto alla seconda, perche i suoi doveri non sono solo verso i suoi azionisti, ma anche verso tutti coloro che lavorano in azienda, verso le comunità che la circondano, verso i Paesi (nel caso della Pirelli ben 16) in cui il gruppo opera.

3. Credo fermamente che in un gruppo delle nostre dimensioni (ma penso che il concetto siaschermata-2017-03-26-alle-11-17-28 estensibile anche a unità più piccole), il chief executive officer debba farsi affiancare da collaboratori professionalmente capaci e moralmente ineccepibili. Penso inoltre che con loro egli debba chiaramente stabilire quali sono i problemi sui quali intende decidere in prima persona, naturalmente dopo aver ascoltato e vagliato i loro pareri, e quali i problemi per i quali delega la decisione (e devono essere molti). E, fra questi problemi delegati, quali quelli di cui desidera essere informato a posteriori e quali quelli di cui non desidera neppure essere informato. Resta chiaro tuttavia che, qualunque sia il grado di delega, il chief executive officer rimane responsabile di tutto quello che succede nel gruppo, perchè è lui che ha scelto gli uomini e dato le deleghe e, quindi, li copre sempre e comunque

4. Sono convinto che fra i primi compiti del chief executive officer vi sia la continua cura della preparazione dei quadri futuri, dalla sua successione a quella dei suoi collaboratori più vicini, preoccupandosi che questi a loro volta diano al problema la stessa importanza, e cosi via, giù per la piramide.

5. Pur essendo il capo, il chief executive officer deve cercare di capire il personaggio umano che sta nei suoi colleghi, coi suoi problemi personali di salute o economici o familiari e deve sempre ricordarsi che, se un collega non si dimostra all’altezza dei compiti affidatigli, e lui, il chief executive officer, che ha sbagliato per primo affidandoglieli.

6. Sono convinto che un imprenditore debba essere onesto nel senso più lato della parola (non basta cioè che non rubi e non dia falsa testimonianza). Parlando di onestà in senso lato, penso ad un determinato comportamento verso azionisti e dipendenti, ma anche verso clienti, fornitori, concorrenti, fisco, partiti e mondo politico. Penso che —a parte ogni principio morale — l’essere onesto paghi, sia l’imprenditore come persona sia l’azienda che egli dirige.

schermata-2017-03-26-alle-11-18-387. Ho la convinzione che il chief executive officer deve saper evolvere coi tempi, pur tenendo fede ai «sacri principi» cui ho appena accennato. Un solo esempio: quello dei rapporti coi lavoratori e con le loro rappresentanze. Io sono entrato in azienda quando già il paternalismo, anche il più illuminato, non aveva più posto nella realtà industriale. Sono passato attraverso i tempi dei duri scontri del ’68/69, gestendo in prima persona i rapporti coi sindacati, quando i muri di Milano erano tappezzati di scritte: «Agnelli e Pirelli ladri gemelli» e avendo personalmente parole e atteggiamenti molto duri per chi voleva «tutto e subito». Ma già allora nutrivo la fiducia — e ciò appare dal nuovo statuto della Confindustria elaborato dalla cosiddetta «Commissione Pirelli» nel 1969/70 — che da un rapporto conflittuale si potesse passare a un rapporto collaborativo, cosa che oggi — anche se non gestisco più in prima persona questi problemi — ho il piacere di vedere realizzata in misura importante, sia pure di certo ulteriormente migliorabile. Ebbene, se tutto questo è potuto avvenire, è perchè entrambe le parti hanno saputo maturare ed evolversi in funzione delle mutazioni del quadro sociale e delle condizioni di vita.

8. È mia opinione che l’ imprenditore non debba rimpiangere decisioni prese nella convinzione di essere nel giusto e che invece nel tempo si sono dimostrate sbagliate: anche qui un solo esempio, senza certo pretendere che non ve ne siano altri che potrei dare. Mi riferisco alla unione Pirelli – Dunlop nata nel 1970 con lo scopo di far raggiungere alle rispettive attività pneumatici, una volta riunite, dimensioni comparabili a quelle dei tre grandi del settore: Goodyear, Michelin, Firestone. Sembrava un’unione ideale ma purtroppo, nonostante la stima e l’amicizia fra gli uomini Pirelli e Dunlop e in particolare fra i due presidenti, il matrimonio fallì: forse non fu in realtà mai consumato. E ciò per un insieme di ragioni: crisi Pirelli in Italia negli anni 70, poi crisi Dunlop in Inghilterra; impossibilità di gestire unitariamente; difficoltà di compenetrazione di mentalità anglo-sassone con mentalità latine. Forse un po’ di sfortuna. Comunque fallì e si arrivò al divorzio. Fu per Pirelli (e anche per Dunlop) una grossa esperienza negativa: me ne sento pienamente responsabile, ma se tornassi al 1969/70, risposerei Dunlop. Non rimpiango, quindi, la decisione presa allora, anche se cercherei di consumare il matrimonio la sera delle nozze o forse — per essere à la page con i giovani d’oggi — anche qualche tempo prima.

9. Credo che l’imprenditore non debba vantare meriti che spesso non sonoschermata-2017-03-26-alle-11-19-38 individuali ma collettivi. Io, se devo attribuirmi un merito, scelgo quello di essere rimasto calmo e sereno al timone nei momenti in cui la barca era in difficoltà, in cui lo scafo stesso sembrava dar segni di cedimento. Ma non sono certo stato solo nel portare la barca fuori dalla burrasca: mentre io restavo al timone, altri hanno issato nuovamente le vele e insieme abbiamo ripreso a navigare. Meglio di prima; forse benino; perche non dire, oggi, niente male?

10. Chiudo, ricordando per ultima la prima qualità che un imprenditore deve sempre avere: cercare, cercare con tutte le sue forze, di chiudere dei buoni bilanci. Se non ci riesce una volta, ripro-vare. Se non ci riesce più volte, andarsene. E se ci riesce, non credersi un padreterno, ma semplicemente uno che, dato il mestiere che ha scelto, ha fatto il suo dovere.

L’addio all’ultima carica
Nel maggio del 1999, quando lasciò anche l’ultima carica, quella al vertice di Pirellina, disse: «Ogni età ha i suoi doveri, alla mia tocca quello di ritirarsi dal proscenio. E io oggi considero un privilegio il poter adempiere tranquillamente a questo dovere»

E a me non pare poco.

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