La neutralizzazione di Uber è il riscatto del protezionismo reazionario

scritto da il 08 Aprile 2017

Per un paese abituato a guardare gli altri dal fondo della classifiche internazionali, il provvedimento con cui il tribunale di Roma ha a tutti gli effetti neutralizzato la presenza di Uber nel mercato italiano – sospendendone anche il servizio professionale UberBlack, pochi giorni dopo che il tribunale di Torino aveva ribadito lo stop ai guidatori occasionali UberPop – rappresenta una rara occasione di riscatto. Peccato che la classifica in ballo in questo caso sia quella del protezionismo reazionario.

Secondo il magistrato decidente, le attività di Uber costituiscono una forma di concorrenza sleale ai danni delle auto pubbliche: e il sospetto è che, agli occhi di ampie fasce dell’opinione pubblica, la concorrenza sleale sia semplicemente quella efficace: la concorrenza, cioè, che offre ai consumatori servizi migliori a prezzi più bassi. Ma l’articolo 2598 del codice civile attribuisce alla nozione di concorrenza sleale un significato tecnico ben preciso – la lesione di obblighi di buona fede, per esempio attraverso la denigrazione dei competitor o la bieca imitazione dei loro prodotti – che non sembra potersi ravvisare nelle condotte di Uber.

Analizzare in punta di diritto le controversie sollevate dalla rivoluzione di Uber non basta, tuttavia, a misurare la portata dei conflitti che l’avvento della società californiana ha catalizzato, in questo come in altri paesi. Da un lato, dobbiamo perdonare alla giurispridenza, in linea di principio imboiaccata dalla legge vigente, un certo margine di naturale conservatorismo; dall’altro, dobbiamo tenere in conto che le interpretazioni della magistratura s’innervano su un contesto sociale fortemente polarizzato. Non è casuale che la decisione di Roma giunga a valle del recente e torrido scambio d’idee, se così vogliamo chiamarlo, tra tassisti e governo.

In altre parole, la scarsa lungimiranza dei giudici sin qui investiti del destino di Uber, seppur non giustificabile, appare comunque comprensibile alla luce della latitanza del legislatore, tuttora incapace di tradurre nel linguaggio del ventunesimo secolo la disciplina sul trasporto locale non di linea, elaborata in una stagione in cui internet era un club per iniziati e i telefoni cellulari avevano la portabilità e la grazia di una foratina.

Si tratta di un confronto eminentemente politico tra due opposte visioni del mondo: una che vorrebbe sterilizzare ogni possibilità d’innovazione nei settori regolati; e una che riconosce che solo attraverso l’esempio concretamente prestato dagli innovatori possiamo innescare i meccanismi di revisione delle normative esistenti, testandone costantemente la tenuta. Che l’innovazione travolga interessi costituiti è una conseguenza sgradevole ma ineliminabile del processo.

Questa è la domanda fondamentale che ci dobbiamo porre: è lecito che, per tutelare l’affidamento più o meno legittimo dei tassisti, si perpetuino quelle che – contro le incredibili affermazioni in materia del giudice Landi – sono palesi rendite monopolistiche che danneggiano il mercato e i consumatori? Si tratta, peraltro, di un quesito che lascia aperta l’eventualità di compensazioni a favore dei tassisti. Grazie a Uber sappiamo che il modello regolamentare impiegato sin qui non ha più ragion d’essere. La barca dei taxi per come li abbiamo conosciuti è destinata ad andare a fondo: potremo forse offrire loro una scialuppa, ma non è affogando Uber che la potremo tenere a galla.

Twitter @masstrovato