Lezione della crisi per le banche italiane: la necessità del dissenso intelligente

scritto da il 06 Settembre 2017

In una lettera di Paolo Baffi a Luigi Spaventa del 1° dicembre 1983 (in Archivio Storico Banca d’Italia, Carte Baffi, Governatore Onorario, cart. 41, fasc. 8), l’ex governatore della Banca d’Italia – scrivendo della “malizia dei Sindona, dei Calvi e degli altri portatori di interessi loschi” – invoca il “clamore e il possibile effetto risanatore degli scandali”.

Ebbene, sono passati oltre trent’anni e nel Belpaese si intravedono pochi miglioramenti. Se una banca si trova in difficoltà, si fa di tutto per coprire lo scandalo ed evitare di pensare a come evitare un futuro dissesto. La storia non è maestra di vita, purtroppo, ma una riflessione è necessaria.

Proviamo quindi a trarne alcune indicazioni per il futuro concentrandoci sulla governance delle banche, sull’assetto societario, sul sistema di decisione troppo verticistico, senza adeguati contrappesi.

Marco Onado nel suo interessantissimo e pregnante “Alla ricerca della banca perduta” (il Mulino, 2017) spiega come “un elemento che lega tutte le banche che sono entrate in crisi è la sclerotizzazione del gruppo dirigente intorno a un leader (si fa per dire) che è stato dominus incontrastato per decenni. Il fil rouge di tutte queste crisi è infatti il peggio del capitalismo di relazione e del provincialismo della società civile delle zone delle banche”.

Abbiamo visto come dietro la definizione di “banca del territorio” si mascheravano operazioni delinquenziali. Quando nel lontano 2000 l’allora direttore generale di Banca Popolare di Vicenza Giuseppe Grassano lasciò l’incarico – dopo vivaci dissidi con il presidente Gianni Zonin – scrisse una lunga relazione alla Banca d’Italia dove affrontava diversi punti critici della Vicenza, tra cui l’assoluto dominio dei vertici sulla struttura sottostante, che si adeguava pancia a terra a qualsiasi disposizione che proveniva dal Consiglio di Amministrazione, a sua volte succube del dominus inconstrastato, l’imprenditore vitivinicolo improvvisatosi banchiere, Gianni Zonin.

Quando alla Banca Popolare di Vicenza le autorità di vigilanza imponevano un aumento di capitale, immediatamente Zonin informava il Cda che il capitale era stato immediatamente sottoscritto, e al contempo, sollecitava la direzione generale all’implementazione – senza alcun contraddittorio – delle operazioni baciate, ossia dei finanziamenti ai clienti, i quali sottoscrivevano le azioni (non quotate) a prezzi da capogiro. In tal modo si annacquava bellamente il capitale di vigilanza.

Gianni Zonin, ex presidente della Popolare di Vicenza

Gianni Zonin, ex presidente della Popolare di Vicenza

L’inadeguata cultura finanziaria dei clienti faceva sì che un titolo non quotato – che non fa prezzo – fosse ritenuto meno rischioso di un titolo quotato, che ovviamente risente delle turbolenze domestiche e internazionali.

Esempi positivi ne abbiamo? Eccome. La Banca Commerciale di Raffaele Mattioli, il quale esigeva che all’interno della Banca il dibattito di idee fosse il più proficuo possibile. Nel bel libro di Sandro Gerbi “Raffaele Mattioli e il filosofo domato. Storia di un’amicizia” (Hoepli, 2017) si racconta il ruolo avuto dal direttore dell’Ufficio Studi Antonello Gerbi – prima di dover fuggire in Perù per le leggi razziali e lasciare la direzione a Ugo La Malfa – nel raccogliere ed elaborare le informazioni, nell’agire a supporto dell’amministratore delegato con un forte senso critico.

Gli scenari e le strategie della Banca erano poste al vaglio di un attento discernimento. Come scrive Onado, “quanti errori sarebbero stati evitati, soprattutto negli anni recenti della grande crisi, se i banchieri onnipotenti e strapagati avessero avuto simili coscienze in casa”.

Come racconta Riccardo Bacchelli ne “Le notti di Via Bigli” (il Mulino, 2017), Mattioli confessò al banchiere Joseph Wechsberg di non avere alcuna necessità di circondarsi di ossequiosi interlocutori: “Perché dovrei pagare un altro perché la pensi come me?”.

Bacchelli spiega la filosofia della Commerciale di Mattioli: “La ricerca del profitto dell’impresa, per coincidere con l’interesse generale di un paese necessariamente plurale, doveva alimentarsi di quello che potremmo definire un dissenso intelligente… Di qui l’utilità economica, non un vezzo estetico della presenza in Banca, in ruoli di cospicua responsabilità, di umanisti, come Gerbi (il “filosofo domato”), di Solmi, e, in forme diverse, dello stesso Malagodi, onde pure il rilievo strutturale dell’Ufficio Studi, condotto a un livello di importanza non riscontrabile in altri istituti bancari”.

Dopo la dipartita di Grassano, Zonin si circondò di yes-man, così che potesse portare la banca al dissesto, senza alcuna opposizione da parte del consiglio di amministrazione, pieno zeppo di “debitori di riferimento”, eccezionale definizione coniata da Stefano Siglienti che evidenzia come parte del capitalismo italiano faccia ricorso a un eccessivo capitale di debito bancario, alle cui deliberazioni concorre.

Nella logica di Mattioli, l’uomo rende molto di più se è aperto alle arti, alla letteratura, se è dotato di una preparazione storica-critica. Nella visione di Zonin e di altri banchieri similari, è molto più produttivo andare a cena con alti prelati o presidenti di Tribunale, per avere gli appoggi giusti nel momento del bisogno. Le conseguenze si sono viste.

Twitter @beniapiccone