Politiche attive e assegno di ricollocazione: le ragioni di un flop

scritto da il 15 Settembre 2017

Nell’imminente autunno l’assegno di ricollocazione dovrebbe andare a regime, interessando una potenziale platea di circa mezzo milione di percettori di Naspi. Si tratta della prima vera misura di politica attiva, volta a favorire il ricollocamento del disoccupato nel mercato del lavoro, con l’ausilio di soggetti pubblici o privati. La sperimentazione però non ha prodotto i risultati sperati. Delle circa 29 mila persone scelte a caso tra le liste dei disoccupati, sembrerebbe che solo il 10% abbia scelto di usufruire dell’assegno.

Ma quali sono le ragioni della bassa adesione? Maurizio Del Conte, presidente dell’Anpal, confida in un miglioramento delle percentuali in virtù del prossimo superamento della fase sperimentale e dell’allargamento della platea degli aventi diritto, grazie ai learning effect e ad una migliore campagna informativa che dovrebbe portare gli interessati a fidarsi dello strumento, sperando che ci siano esperienze positive di lavoratori ricollocati con successo che possano fungere da incentivo psicologico e da passaparola.

Maurizio Del Conte, presidente Anpal

Maurizio Del Conte, presidente Anpal

Il messaggio ottimistico del professore si inserisce però in un ecosistema, da lui ben conosciuto, di assuefazione alle politiche passive e di sostegno del reddito in luogo dell’aiuto nella ricerca dell’impiego. Secondo alcune indagini condotte dall’Inapp, ben 72 italiani su 100 sarebbero favorevoli a misure di sostegno al reddito per chi è senza lavoro, benché nel quesito dell’indagine fosse specificato che il costo della misura ricadrebbe sull’intera collettività. Percentuale ancora più alta tra i laureati (circa 75%) e anche tra chi ha una retribuzione lorda annua superiore ai 30 mila euro, quindi anche tra  coloro i quali ne sopporterebbero maggiormente il peso attraverso la tassazione o tra chi ne dovrebbe avere – teoricamente – meno bisogno (i laureati).

Secondo un’altra indagine condotta su persone occupate, una misura di sostegno pari a 800 euro mensili in caso di perdita del lavoro sarebbe preferita rispetto ad aumento della retribuzione mensile di 50 euro (per chi guadagna meno di mille euro al mese, che aumenterebbero proporzionalmente al crescere della retribuzione, ad es. 200 euro mensili per chi guadagna tra 2 e 3 mila euro al mese).

Si tratta di indicazioni significative, seppur non del tutto inattese, di cui si dovrebbe tener conto nel disegno di misure passive quale la Naspi o attive come l’assegno di ricollocazione. Quest’ultimo non viene percepito dal disoccupato, bensì dal soggetto giuridico che lo aiuterà a ritrovare il lavoro, come i Centri pubblici per l’impiego (“CPI”), le agenzie per il lavoro o altri soggetti pubblici e privati iscritti presso un apposito albo, e può avere un valore massimo di 5 mila euro. Un ostacolo alla misura è rappresentato dalla mancanza di incentivi per uscire dalla Naspi, la quale ha una durata che può raggiungere un limite massimo di 24 mesi (sulla base del numero di settimane di contribuzione degli ultimi quattro anni). Ci sono degli elementi di condizionalità che possono comportare la riduzione dell’importo e la decadenza della misura, come ad esempio in caso di “mancata partecipazione alle iniziative di attivazione lavorativa ed ai percorsi di riqualificazione professionale proposti dai Servizi competenti” o di “mancata accettazione di un’offerta di lavoro congrua, come definita dall’art. 25 del D.Lgs. n. 150 del 2015”, ma facendo il minimo indispensabile e sfruttando le lungaggini dei CPI, non è di certo un’impresa impossibile mantenere la Naspi fino al suo limite massimo. In questo scenario, manca l’incentivo ad usufruire dell’assegno di ricollocazione, vuoi per poter cercare un impiego irregolare in costanza di Naspi o semplicemente per godere di più tempo libero (retribuito).

Così concepito, lo strumento rischia di non essere in linea con le motivazioni della riforma. Un primo rimedio dovrebbe comportare un aumento della condizionalità (come avviene in altri Paesi europei), anche attraverso una maggiore decurtazione della Naspi attualmente prevista – pari al 3% a partire dal quarto mese di fruizione – con l’obiettivo di fornire un incentivo ulteriore all’utilizzo dell’assegno di ricollocazione. L’uscita dalla disoccupazione non è da perseguire unicamente per il mero risparmio dello Stato, ma anche per il bene del lavoratore stesso: maggiore il periodo di disoccupazione, minore la probabilità di rientrare agevolmente nel mercato al termine del beneficio. Il primo nemico delle politiche attive – che non hanno il fine di aumentare l’occupazione ma l’occupabilità – dovrebbe essere infatti la disoccupazione di lungo periodo, più difficile da assorbire, mentre spesso si producono risultati per i soggetti che potrebbero anche farne a meno.

Sussiste però un secondo problema, ben più strutturale. Tutti gli elementi di condizionalità, compresi quelli vigenti, restano lettera morta se non sussistono le risorse per renderli applicabili. E lo stato di salute dei CPI appare tutt’altro che roseo, con forti divergenze territoriali. Di contro, molto spesso gli stessi CPI danno l’impressione di essere delle fonti di occupazione per persone che, probabilmente, si sarebbero dovute sedere dall’altro lato dello sportello se non avessero trovato l’impiego pubblico. Secondo l’ultimo monitoraggio generale disponibile ad esempio (risalente al 2015), «Le Regioni dell’Italia meridionale e insulare, infatti, raccolgono da sole oltre 4.253 operatori, tra dipendenti e collaboratori, vale a dire il 48,3% del complesso del personale che opera nei Centri per l’impiego (…)».

Si obietterà che serve più personale laddove i tassi di disoccupazione sono più alti, ma forse servirebbe anche più qualificato: «Spostandosi dalle aree del Nord-est a quelle del mezzogiorno, il livello medio di istruzione degli operatori diminuisce considerevolmente, soprattutto se si guarda alle Regioni dell’Italia meridionale ed insulare. (…) Inoltre, è sempre l’area meridionale del paese a presentare la quota maggiore di personale col più basso livello di istruzione (massimo licenza media), con una percentuale di 3 punti più elevata di quella media nazionale e con valori praticamente identici a quella registrata per i laureati».

Generalizzare è sempre ingiusto, ma appare arduo il tentativo di attendersi grandi risultati dalle politiche attive in assenza di una struttura organizzativa in grado di supportarle e di far rispettare la condizionalità dei benefici. Il ruolo dell’Anpal può essere fondamentale, ma non si possono attendere miracoli senza la dovuta collaborazione delle Regioni che saranno responsabili del funzionamento dei CPI.

Speriamo che questa lunga fase di incertezza transitoria post-4 dicembre (2016) si concluda presto, per evitare che si allarghino ulteriormente i già ampi divari territoriali.

Twitter @frabruno88