Gli Ogm non ci piacciono, però ne importiamo (e mangiamo) un bel po’

scritto da il 10 Novembre 2017

Un interessante rapporto sull’uso delle biotecnologie agricole in Italia rileva una curiosa caratteristica del nostro paese, che così tanto fieramente avversa l’introduzione di coltivazioni Ogm. Ossia la circostanza che importiamo significative quantità di commodity biotech, per lo più soia, sotto forma di mangimi per animali visto che non riusciamo a produrne abbastanza.

Ciò malgrado, “l’attitudine generale verso le coltivazioni Ogm rimane ostile”, come nota l’autrice del report. I finanziamenti, pubblici e privati, a queste ricerche si sono sostanzialmente azzerati, mentre al contempo l’aumento del costo dei mangimi rende la scelta italiana, che ha precise ragioni economiche legate soprattutto alla difesa delle nostre specificità locali, alquanto onerosa. Difatti mentre in Italia non si è sviluppata alcuna coltivazione Ogm a fini commerciali, “i prodotti animali italiani sono probabilmente derivati da animali nutriti con ingredienti Ogm ed è probabile che anche alcuni prodotti siano processati con ingredienti Ogm”. I dati dicono che l’Italia importa fra l’85 e il 90% di soia e farina di soia.

Nel 2016, in particolare, abbiamo acquistato 1,3 di MMT (milioni di tonnellate) di soia, per lo più dal Brasile (536,24), dagli Stati Uniti (272,375 MT) e dal Canada (172,793 MT). Sempre nel 2016 abbiamo importato 2,1 MMT di farina di soia, in gran parte dall’Argentina (1.425 MT), dal Paraguay e sempre dal Brasile. Poiché la soia Ogm “rappresenta una porzione significativa dell’offerta globale, l’Italia sta probabilmente usando soia Ogm nei suoi mangimi”.

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Il rapporto ricorda che nel nostro paese vige il divieto di coltivazioni Ogm fin dal luglio 2013 e che nel 2015 il nostro ministro dell’agricoltura comunicò all’Ue la decisione del governo di non voler adottare coltivazioni del genere sul territorio. Ci furono anche alcuni strascichi giudiziari. Alcuni coltivatori furono perseguiti dai magistrati di Udine per aver coltivato sui propri terreni il mais Monsanto 810, violando la legge del 2013. Il procedimento finì davanti alla Corte di Giustizia europea che nel settembre scorso ha accolto la tesi degli agricoltori concludendo che gli stati membri non possono adottare misure d’emergenza riguardanti cibo e semi Ogm, visto che “non è evidente che i prodotti autorizzati costituiscano un rischio per la salute e l’ambiente”.

Ciò malgrado l’orientamento nei confronti di queste colture rimane fortemente restrittivo. “Il dibattito sui media – commenta l’autrice del rapporto – sulle coltivazioni e le sperimentazioni ha reso politicamente insostenibile il sostegno alla ricerca”. E ovviamente anche la pratica. Nel 2008, ricorda il rapporto, le regioni Toscana e Marche avevano approvato nove siti a coltivazione GM dove sperimentare alcune colture (kiwi, fragole, olive, pomodori e altre), ma dal ministero dell’agricoltura non è mai arrivato il decreto necessario ad autorizzare queste attività. Nello stesso periodo altre 16 regioni (Valle D’Aosta, Piemonte, Emilia Romagna, Toscana, Lazio, Marche, Umbria, Abruzzo, Campania, Basilicata, Puglia, Sardegna, Alto Adige, Friuli Venezia Giulia, Liguria, e Molise), 41 province e 2.350 comuni si dichiaravano Ogm-free “ostacolando ulteriormente la possibilità di nuove ricerche e piantagioni”.

Ciò non vuol dire che la nostra tecnologia agricola rifiuti l’innovazione. Tutt’altro. Solo che invece dell’approccio Ogm, che implica l’ingegnerizzazione del genoma con geni anche distanti da quelli originali, preferisce quello cisgenico o del genoma editing, che sostanzialmente arriva allo stesso risultato – la modifica del patrimonio genetico di un organismo – ma utilizzando il patrimonio genetico di un organismo simile. E proprio su questo approccio si conta per “superare una forte dipendenza dall’approvvigionamento di materiali genetici dall’estero anche attraverso la valorizzazione della agrobiodiversità”, come si legge in un documento depositato in Senato.

Di recente infatti la Commissione parlamentare dell’agricoltura ha dato parere positivo a uno schema di decreto del ministero delle politiche agricole per finanziare con 21 milioni un piano triennale di ricerca proprio sul genoma editing e le cisgenica da realizzarsi in collaborazione con il CREA, Consiglio per la ricerca in agricoltura e l’analisi dell’economia agraria. Parere che contiene alcune informazioni interessanti. La prima riguarda il fatto che ” il confine tra il genome editing e le tecniche di ricerca che comportano la modificazione genetica degli organismi non è ancora chiaro”.

La seconda che ”il Parlamento ha da sempre espresso una posizione nettamente contraria all’uso delle tecniche di modificazione genetica in campo agroalimentare, non tanto per ragioni ideologiche, quanto perché la distintività dei prodotti italiani viene preservata proprio evitando contaminazioni con prodotti modificati geneticamente, a difesa, quindi, del valore commerciale del Made in Italy e del suo marchio distintivo nel mondo”. Il che ha il merito di riportare la questione nel suo alveo naturale: l’interesse economico e, in subordine, quello ambientale.

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L’obiettivo della ricerca, tuttavia, è lo stesso degli Ogm: creare con la manipolazione genetica organismi più resistenti. I problemi, di conseguenza, sono analoghi. Bisognerà innanzitutto convincere l’Ue che questa tecnologia non deve essere considerata alla stregua degli Ogm. E poi l’opinione pubblica, che in gran parte reagisce automaticamente rifiutando queste tecnologie.

A tal proposito si segnala l’iniziativa lanciata di recente dalla Società italiana di genetica e dalla Federazione Italiana Scienza della vita di lanciare una campagna-appello per promuovere il genoma editing.  Al punto 1 del manifesto si legge che “La Storia è cominciata con il miglioramento genetico delle piante”, al punto 6 che “il miglioramento genetico è stato sempre sicuro” e al punto 12 che “il genoma editing ci permette di scegliere una via italiana al nuovo miglioramento genetico”. Insomma, gli organismi geneticamente non ci piacciono, ma li importiamo per nutrire gli animali che alimentano anche molte produzioni DOP. E nel frattempo ci facciamo i nostri. Chissà se la “via italiana” alla modifica genetica convincerà l’Ue. E soprattutto i consumatori.

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