Con lo shale oil niente sarà più come prima. Lo ha capito anche la Bce

scritto da il 26 Dicembre 2017

Nessuno fino a pochi anni fa ci avrebbe scommesso, ma la rivoluzione dello shale oil ha finito con trasformare gli Usa in un player dei mercati dell’energia capace di spiazzare i produttori tradizionali, quindi l’Opec innanzitutto, ma anche la Russia.

Il grafico qui sotto è più che sufficiente a dare un’idea di quello che è successo in questi ultimi dieci anni. E serve anche a capire perché la Bce abbia deciso di dedicare alla rivoluzione dello shale made in Usa un approfondimento nel suo ultimo bollettino economico. Il prezzo del petrolio, infatti, è una delle componenti più volatili che influenza l’inflazione, ossia ciò di cui la banca centrale deve occuparsi. Sicché analizzare la rivoluzione della shale, che influenza decisamente il prezzo del petrolio, serve a fare previsioni ragionevoli sull’andamento generale dei prezzi.

Abbiamo visto all’inizio del 2017 come l’accordo del 30 novembre 2016, siglato all’interno dell’Opec e poi accettato dalla Russia sui tagli di produzione, sia servito a rimettere in equilibrio la domanda e l’offerta di petrolio divenuta sovrabbondante. Nei primi mesi di quest’anno l’effetto sui prezzi del petrolio, cresciuti rapidamente, è stato rilevante e quello sugli indici di inflazione altrettanto, anche se poi si è esaurito. E tuttavia il fatto che l’accordo fra Opec e Russia sia stato prolungato di recente a tutto il 2018 dimostra che l’ingresso degli Usa fra i grandi produttori, ormai anche esportatori (vedi grafico sotto), abbia costretto Opec e Russia a rivedere sostanzialmente le loro strategie. E non è la prima volta che succede.

Oggi gli Usa rivaleggiano con l’Arabia Saudita quanto a capacità produttiva e dopo la rimozione del divieto sull’export di greggio iniziano a farsi vedere anche sui mercati internazionali. Sicché lo shale oil, nato come fenomeno prettamente domestico, nell’arco di pochi anni è diventata una rivoluzione globale, come spesso accade con le cose statunitensi. Tanto è vero che “le decisioni dell’Opec – riporta il bollettino Bce – sono state particolarmente influenzate dall’evoluzione delle condizioni di offerta negli Stati Uniti”.

Vale la pena ricordare un po’ di storia. A novembre del 2014 l’Opec rimosse le quote di produzione nel tentativo di recuperare spazi di mercato. Ci riuscì, ma al costo di un crollo delle quotazioni del greggio arrivate quasi alla metà di prima. Il prezzo di questa politica fu gravoso per il paesi Opec, la cui economia dipende sostanzialmente dalla vendita di risorse energetiche, al punto che si arrivò praticamente per sfinimento all’accordo di novembre 2016, appoggiato anche dalla Russia notevolmente danneggiata dal calo dei prezzi. per il taglio della produzione. Anche i produttori di shale statunitensi, dal canto loro, subirono danni dal calo dei prezzi, ma complessivamente riuscirono a sostenerli. In sostanza, come nota anche la Bce, i produttori di shale si sono dimostrati resilienti alla crisi dei prezzi e fortemente reattivi al suo terminare. E questo conferma che gli Usa sono entrati pesantemente nel grande gioco dell’energia spiazzando Russia e Opec che di questo gioco erano i mazzieri.

Come esempio, basta notare che il grande rialzo dei prezzi osservato dal 2003 al 2008, quando il petrolio passò da 23 dollari al barile a 145, fu causato secondo l’analisi della Bce dalla circostanza che mentre la domanda aumentava, spinta dai consumi (cinesi e non solo) in crescita, l’offerta rimaneva tirata. “La preferenza dell’Opec – riporta il bollettino – secondo alcune analisi empiriche era di mantenere il mercato teso per sfruttare il suo rinnovato potere di influenzarne l’equilibrio”. Questo mentre i paesi produttori non Opec “provavano a seguire il passo dei consumi crescenti”.

Ma il rialzo dei prezzi ebbe come conseguenza non intenzionale un generoso flusso di capitali verso l’industria dello shale Usa, che a quelle quotazioni risultava molto conveniente. Tanto da fare entrare nel gioco anche compagnie di taglia media che contribuirono a far decollare la produzione. La crisi post 2008 fece crollare l’attività economica e di conseguenza la domanda di greggio. Le quotazioni scesero sotto i 40 dollari già all’inizio del 2009. La risalita del greggio su favorita dal taglio sostanziale della produzione Opec, circa tre milioni di barili al giorno, che fu completamente eliminato solo nel 2012. Ma nel frattempo l’età dello shale, come la chiama la Bce, stava saldamente mettendo radici.

Quest’epopea si può dividere in tre fasi, quella da gennaio 2011 alla metà del 2014, quella che seguì da allora fino all’ottobre del 2016 e quella iniziata a novembre 2016 fino all’aprile di quest’anno e che in qualche modo prosegue ancora. “A ognuno di questi periodi – spiega il bollettino – corrisponde un cambiamento importante delle posizioni Opec e dei prezzi del petrolio”.

Ciò a dimostrazione del fatto che fra i due litiganti che provavano a influenzare il mercato, ossia l’Opec sostanzialmente guidato dall’Arabia Saudita, e i paesi produttori non Opec, con la Russia capofila, si è insinuato un terzo – gli Usa – che di fatto ha goduto i vantaggi di questa straordinaria rivoluzione. Il primo periodo dei tre considerati vede la quota della produzione Usa su quella globale crescere da 7 al 12%, con un incremento del 54% dei barili pompati: erano 5,4 milioni al giorno all’inizio del 2010, diventano 9,5 milioni alla fine del 2014.

Gran parte di questo progresso si deve ai siti Eagle Ford e della regione Permiana, noti alle cronache specialistiche. Nel frattempo i paesi non Opec diminuivano la produzione, in particolare Norvegia, Messico e Regno Unito, mentre l’Arabia Saudita la aumentava compensando anche i cali di alcuni paesi mediorientali afflitti da tensioni politiche. L’impatto dei produttori shale sulle dinamiche globali del mercato, in questa prima fase rimane contenuta. I produttori Opec puntano a mantenere il prezzo intorno ai 100 dollari al barile, almeno in Europa e ci riescono senza troppe difficoltà.

Alla fine del 2013 l’espansione della produzione shale era alle stelle. Come conseguenza le riserve esplosero dai due miliardi di barili del 2011 agli 11,6 miliardi di barili nel 2015. I produttori tradizionali si resero conto che una nuova variabile era entrata nel grande gioco. Peraltro, sempre nel 2014, altri produttori non Opec, Brasile, Russia e Canada, aggiunsero un altro milione di barili di produzione sul mercato. Ciò produsse due conseguenze: l’Opec perse quote di mercato e la offerta superò ampiamente la domanda.

Ciò indusse l’Opec a cambiare nuovamente strategia. Gli esperti avevano sotto stimato non solo il livello di produzione dello shale, ma anche la durata di questa rivoluzione che secondo le nuove proiezioni ora sarebbe dovuta estendersi almeno fino al 2030. “Lo shale oil ha modificato il mercato permanentemente”, sottolinea il bollettino. I produttori tradizionali si resero conto che tenere i prezzi alti avrebbe continuato a favorire lo sviluppo di questa tecnologia.

Perciò, nel novembre 2014, l’Opec decise di abbandonare le quote di produzione nel tentativo di recuperare spazi di mercato. Ciò aggiunse pressioni al ribasso ai prezzi, col risultato di scoraggiare gli investitori sullo shale. Ma se l’intento era quello di metterli fuori mercato, il risultato fu molto differente. Qualche produttore fu espulso, ma altri impararono ad abbassare i costi di produzione, La politica dei bassi prezzi servì in sostanza a insegnare ai produttori shale l’efficienza.

“L’industria shale è sopravvissuta attraverso fusioni e acquisizioni, con la compagnie più piccole assorbite da quelle grandi”, spiega la Bce. Così lo shale ha continuato a esistere anche a prezzi arrivati a 30 dollari al barile. Ma a questo punto sono i fattori dell’offerta a guidare i prezzi. I paesi Opec, pressati dalle tensioni fiscali patite a causa dei bassi prezzi, devono di nuovo cambiare strategia. E si arriva così all’accordo di novembre 2016 per il taglio della produzione.

Alla fine di questa storia, a settembre 2017, l’Opec quota ancora il 42% dell’offerta globale di petrolio, ma l’industria Usa dello shale ha recuperato e persino superato il record di produzione del 2014. Per i produttori shale il petrolio a 50 dollari è già un ottimo affare. Per questo lo shale “rimarrà un fattore importante nella produzione di petrolio anche in futuro”, prevede la Bce. Gli investimenti sono previsti in aumento rispetto al passato, quando già erano stati rilevanti.

E la produzione è prevista in aumento. Questa piccola rivoluzione dovrebbe proseguire almeno per i prossimi quindici anni, quando si prevede (2030) che la produzione raggiunga il picco negli Usa. Ma anche ammesso che stavolta gli esperti ci abbiano azzeccato, nulla sarà più come prima nel mercato del petrolio.

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