I giovani, l’esodo delle competenze e la miopia dei politici

scritto da il 20 Gennaio 2018

Con l’intervento di Carlo Calenda e Marco Bentivogli, pubblicato da Il Sole 24 Ore, le competenze sono entrate a far parte della campagna elettorale. Poche illusioni però, tutto rischia di restare confinato in un ambito elitario, lontano dagli umori della popolazione e dal fulcro mediatico della campagna stessa. Ma nonostante la latitanza della politica sui temi, è doveroso essere ostinati e costanti per alimentare il dibattito e far capire l’importanza delle competenze nel mondo che ci circonda.

Un’importanza, tra l’altro, riconosciuta dalla storia. Per favorire l’importazione di competenze, racconta il Cipolla[1] che nel 1230 il Comune di Bologna provò ad attirare artigiani stranieri per far loro impiantare un’impresa nell’odierno capoluogo emiliano, attraverso una serie di incentivi (un tiratoio, due telai, un mutuo, 15 anni di esenzione fiscale, cittadinanza bolognese). «Nel giro di due anni, 1230-31, si installarono in Bologna oltre 150 artigiani, con le loro famiglie e i loro aiutanti (…)». Si tratta di episodi ricorrenti nell’Europa preindustriale.

A che punto è l’Italia?

La serie Getting skills right dell’OCSE dedica il suo più recente capitolo all’Italia, offrendo spunti di riflessione interessanti. Sussiste uno shortage (rispetto alla domanda) di conoscenze informatiche, elettroniche, ingegneristiche, meccaniche, tecnologiche, e un surplus nell’area delle costruzioni, della sicurezza pubblica, dei servizi ai clienti e alla persona. Si evidenziano shortage anche a livello di competenze (reading comprehension, writing, active listening e critical thinking), nonché a livello di abilità, soprattutto quantitative. Preoccupano alcune carenze tecnologiche e digitali (sulle quali ho recentemente scritto in un breve saggio[2]) ed altre a livello di cognitive skills, che richiedono riflessioni sulla nostra istruzione primaria e secondaria.

Oltre allo shortage di competenze sussiste anche un noto problema di mismatch. Il qualification mismatch in Italia è sopra la media dei Paesi considerati nello studio, con simile quota di lavoratori sovra-qualificati e sotto-qualificati (rispettivamente 21 e 18%). Molto alta anche la percentuale di lavoratori impiegati in occupazioni non correlate con gli studi svolti (35%).

Solo un problema di offerta?

Nonostante i dati testimonino alcuni gap importanti di competenze, è tuttavia curioso osservare che mentre attendiamo (quasi impazienti) che i robot rubino tutti i nostri lavori, il surplus di lavoratori con qualità legate ai lavori manuali e fisici è relativamente modesto se comparato con altri Paesi (e con l’immaginario collettivo). Ciò significa che la domanda di lavori di routine e manuali è ancora alta e che il modello produttivo resta tuttora molto legato a processi tradizionali. Industria 4.0 è ancora agli inizi in Italia e, soprattutto, non produce gli stessi effetti in tutte le aree del Paese.

È bene dunque non guardare solo un lato della questione, come se ci fosse unicamente un problema di offerta: scuole inadeguate, università distanti dal mondo del lavoro, istituzioni assenti, politiche attive del lavoro non pervenute etc etc. Tutto sicuramente condivisibile, ne ho scritto anche io tante volte su questi pixel. Ma non si può ignorare il lato della domanda, che riguarda il tessuto imprenditoriale.

Il mismatch non è dovuto unicamente alla scarsa mobilità territoriale e lo shortage non dipende solo da carenze dei ragazzi. Resta infatti basso il ritorno dell’investimento in education e competenze. Inoltre, per quanto attiene la scarsa mobilità, lo studio OCSE evidenzia come i giovani si trasferiscano dal Sud al Centro-Nord a causa della disoccupazione piuttosto che mossi dalla ricerca di un salario più alto. Ed è sempre la disoccupazione che induce i giovani verso il mismatch, costretti ad accettare impieghi dove risultano sovra-qualificati o lontani dal proprio background scolastico. Scelte difficili che comportano penalizzazioni salariali, anche fino al 17%, secondo uno studio di Guillermo Montt.

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Ma non tutti accettano un tale status quo. Sono in tanti che scelgono la strada estera, dove sperano di trovare un impiego conferente con gli studi fatti e un salario adeguato, che crescerà sulla base di criteri meritocratici e non di mera anzianità. È il brain drain, di impatto devastante per il nostro futuro.

 

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Tutto ciò sconta alcune debolezze del nostro sistema economico, legato a logiche passate non più confacenti al mondo odierno. Solo le grandi imprese sembrano sostenere la domanda di competenze, mentre le micro e le PMI non appaiono pronte ad assorbire i migliori talenti.

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La tabella è emblematica. Minore la dimensione dell’impresa, maggiore è la propensione ad assumere solo sulla base della domanda di prodotti. Tale logica comporta una minore ricerca di competenze e deboli investimenti in formazione nelle piccole aziende, che rappresentano la stragrande maggioranza del Paese (un fenomeno ancor più preoccupante nel Mezzogiorno). E la conclusione è paradossale: lavoratori poco qualificati per le poche grandi imprese più produttive, troppo qualificati per la stragrande maggioranza di piccole imprese. Se il dualismo dimensionale riusciva a reggere nella prima repubblica – grazie ad agevolazioni, “tolleranza” fiscale e laburistica in favore delle piccole imprese – adesso soffre. Situazione esacerbata dalla carenza di figure manageriali nelle PMI, ancorate alla confusione di ruoli tra proprietari e gestori.

Fermare l’esodo

Sussistono problemi atavici, molto difficili da risolvere. Coinvolgono l’organizzazione scolastica e universitaria, la regolamentazione laburistica e fiscale, la strategia degli investimenti pubblici. Occorrerebbe visione politica e strategica a monte ed esperti preparati a valle che siano in grado di valutare ex ante l’impatto delle riforme e di monitorarlo ex post. Ma il dibattito elettorale è lontanissimo da questi temi, assuefatto da ripetitori automatici di promesse irrealizzabili (per fortuna, il più delle volte) e da soluzioni semplici spacciate per panacee. E i numeri non fanno ben sperare.

Si parla tanto di controesodo. Se ne parlava anche un tempo, con soluzioni assurde (ai nostri occhi). Racconta sempre il Cipolla che a Venezia nel ‘400 si proibiva l’emigrazione dei calafati con «un ordine e parte presa in Gran Consegio che se alcun calafado si partirà da Venetia per andar a lavorar fuori di confini de sta terra, debba star anni sei in una delle preson di sotto e pagar libbre 200», mentre nel 1575 i Medici di Firenze, per frenare l’esodo di operai specializzati, arrivarono ad autorizzare «qualsivoglia persona ammazzare impunemente ciascuno degli soprascritti partiti», premiando in denaro chi avesse riconsegnato l’esule «vivo o morto».

Non avevano cognizione delle libertà e dei diritti che oggi diamo per scontati, non si accorgevano dell’inutilità dei loro decreti, ma quantomeno avevano capito la gravità del problema, anche meglio di molti leader attuali.

Twitter @frabruno88

 

[1] Cipolla C. M., “Storia Economica dell’Europa pre-industriale”, Il Mulino 1974,  pagg. 107 e 223

[2] Bruno F., “Un’ occasione per il Mezzogiorno: ridurre il digital divide per aumentare la crescita”, in AA. VV. “10 idee per convivere con il lavoro che cambia”, Fondazione Giangiacomo Feltrinelli 2017 http://fondazionefeltrinelli.it/schede/10-idee-per-convivere-con-il-lavoro-che-cambia/