Il mattone riparte in Europa ma non in Italia: dai prezzi ai redditi, ecco i motivi

scritto da il 03 Febbraio 2018

L’ultima release di Istat sull’entità della ricchezza non finanziaria italiana aggiunge un altro tassello al quadro informativo dei fondamentali che appesantiscono il mercato immobiliare italiano, fra i pochi dell’eurozona a non mostrare segnali di ripresa, risultando anzi ancora in calo. Gli ultimi dati Eurostat, relativi al terzo trimestre 2017 mostrano una diminuzione dei prezzi dello 0,5% sul trimestre precedente e dello 0,9 rispetto al terzo trimestre 2016. Ciò a fronte di un aumento, nello stesso periodo, del 4,1% per l’intera eurozona.

Se si ricorda l’importanza relativa che ha il mercato immobiliare sia per il nostro sistema bancario che per la solidità delle famiglie, si comprende bene come mai tali andamenti generino diverse preoccupazioni. Anche perché il grafico Eurostat mostra con chiarezza che la ripresa dei prezzi nell’euroarea è in corso dalla metà del 2014, a differenza di quanto avviene da noi. Nella sua osservazione storica sui valori patrimoniali, infatti, Istat sottolinea che dal 2001 al 2008 la crescita di valore dello stock di abitazioni, la gran parte delle quali sono di proprietà delle famiglie, avveniva a un tasso medio annuo del 9%, per rallentare, fra il 2008 e il 2011, all’1,6%. La discesa, iniziata nel 2012, non si è ancora interrotta e ha pesato un tasso medio annuo negativo dell’1,7%, cumulando una diminuzione del valore dello stock dell’8,1%. Nel 2016 si è osservato un rallentamento del calo a -1,3%, ma comunque il mercato è ancora vagamente depresso.

Complessivamente il settore abitativo, a partire dal 2012, ha perso circa 500 miliardi di valore, la gran parte del quale, circa 350, sopportato delle famiglie.

E che sia stato il settore immobiliare la grande vittima della nostra recessione patrimoniale lo dicono i numeri complessivi. La perdita complessiva per tutte le varie classi di asset – immobili a uso abitativo e commerciale, scorte, brevetti, terreni agricoli eccetera – per tutti i settori istituzionali, dal 2011, quota circa 700 miliardi, 650 dei quali riguardano proprio l’immobiliare.

Prima di approfondire l’analisi è utile ricordare che l’ultimo aggiornamento Istat sull’indice dei prezzi delle abitazioni, con dati sempre riferiti al terzo trimestre 2017, mostra un’altra singolarità del nostro settore abitativo, ossia la crescente divaricazione dei prezzi fra le abitazioni nuove e quelle esistenti.

“Rispetto alla media del 2010, primo anno per il quale è disponibile la serie storica dell’IPAB – scrive Istat – nel terzo trimestre 2017 i prezzi delle abitazioni sono diminuiti del 15,2% (-2,0% le abitazioni nuove; -20,5% le esistenti)”. Quindi il problema del nostro mercato immobiliare, che non riesce a superare una fase di stagnazione vagamente regressiva, dipende in larga parte dal patrimonio più datato, che evidentemente non riesce a vincere la sfida del mercato.

Questo dato va letto insieme a un altro, ossia la crescita del valore abitativo dal 2001 al 2016, al netto della recessione degli ultimi sei anni. Ebbene, secondo Istat “nel periodo 2001-2016, il valore nominale dello stock di abitazioni è cresciuto del 76%, passando da 3.268 a 5.738 miliardi”. Ciò significa che comunque abbiamo a che fare con immobili il cui valore è notevolmente cresciuto nel corso degli anni, con una quota rilevante di abitazioni esistenti che appesantiscono l’indice dei prezzi. Per dirla semplicemente: abbiamo un’offerta molto più attempata e insieme cara di quanto fosse nel 2001. Una configurazione che non sembra favorisca la dinamica dei prezzi.

Se guardiamo al lato della domanda, le prospettive non migliorano. Partendo dal presupposto che la domanda degli acquirenti debba essere sostenuta principalmente dall’andamento positivo dei loro redditi, notiamo che quest’ultimo risulta notevolmente squilibrato rispetto alla crescita dei valori immobiliari.

Il grafico è stato estratto dall’ultima release Istat sull’andamento del redditi e mostra con chiarezza come negli anni del boom, quando il mattone cresceva come abbiamo visto a un tasso annuo del 9%, i redditi aumentassero, ma assai meno, diminuendo persino fra il 2004 e il 2005, all’apice del boom. Negli anni fra il 2008 e il 2011, quando, malgrado la crisi, il mattone continuava ad aumentare, pure se a tassi più contenuti, i redditi familiari perdevano in media il 10%, rispetto al livello del 2003 e la ripresa che si osserva dal 2014 (quando infatti ripartono le compravendite ma non i prezzi) in poi non basta a recuperare il gap. In sostanza, l’andamento dei redditi non sembra in alcun modo in grado di sostenere l’aumento di valore osservato dal 2001. Quindi a un’offerta cara e più o meno scadente in ragione della sua vetustà, si associa una domanda fiacca a causa delle debolezza dei redditi che dovrebbe sostenerla. A ciò si aggiunge la variabile fiscale. Molti osservatori imputano alla tassazione gran parte della responsabilità della nostra stagnazione/regressione immobiliare e i costanti riferimenti a cambiamenti nella normativa – più o meno tasse sul mattone – certo non favoriscono la formazione di aspettative chiare.

Sia come sia, investire oggi sul mattone sembra una scommessa non solo azzardata ma anche costosa. Persino la nostra tradizionale propensione a comprare abitazioni sembra risentirne. Le compravendite sono aumentate, infatti, ma sono ancora ben lontane dai livelli degli anni precedenti e mostrano anch’esse segnali di stagnazione.

Considerato l’insieme delle cose sembra già un ottimo risultato.

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