Criticate pure la commissione banche ma ecco alcune cose che andrebbero salvate

scritto da il 12 Febbraio 2018

L’autore di questo post è Luca Bellardini, dottorando di ricerca in Management ­(indirizzo Banking & Finance) presso l’Università Tor Vergata –

La relazione finale di una commissione bicamerale d’inchiesta non è neppure classificabile come soft law, ma può offrire alcuni spunti interessanti: è il caso, per esempio, di quella sul sistema bancario e finanziario. Cominciamo però dal rilevarne i limiti. Primo, viene trattato per ultimo – e con grande sbrigatività – uno degli elementi su cui dovrebbe fondarsi l’azione regolatoria in materia di investimenti: l’educazione finanziaria. Secondo, si perde spesso di vista la gerarchia delle fonti: sebbene quelle comunitarie vengano richiamate in maniera diffusa e puntuale, sembra quasi che l’estensore della relazione non abbia ben chiari i confini tra l’ordinamento italiano e quello europeo. Terzo, si impiega spesso una terminologia imprecisa che rischia di risultare fuorviante.

Andiamo con ordine. Innanzitutto, salta gli occhi che l’ampia discussione sulla necessità di un migliore coordinamento tra le varie autorità – segnatamente, tra Consob e Banca d’Italia – è in gran parte sovrapponibile alle disposizioni del regolamento Ue 600/2014 («MiFIR»), recepite nel Tuf (il Testo unico della finanza) con il decreto legislativo 129/2017, pure richiamate nella relazione. In altri casi – per esempio, con riguardo all’ipotesi di costituire una bad bank nazionale per la gestione dei crediti deteriorati – viene sottolineata la necessità che le decisioni italiane si inquadrino «in un framework europeo». A prescindere dall’intrinseca difficoltà di armonizzare la disciplina degli Npl (i crediti deteriorati, ndr), però, dobbiamo rilevare come in situazioni simili il governo sia riuscito ad agire in maniera autonoma e con strumenti ad hoc (per esempio su Fondo Atlante, Gacs, vicenda delle quattro banche).

Viene poi proposta una separazione dell’attività «bancaria» (si intende, in senso tradizionale) da quella «finanziaria». L’intento di fondo è tutto sommato condivisibile, ma necessiterebbe di un approccio ben diverso, ancorato alla valutazione dell’impatto sull’operatività degli intermediari. Nello specifico, si suggerisce di riproporre l’istituzione di una riserva di attività – per il market making, le transazioni in derivati over-the-counter e le cartolarizzazioni, escluse quelle di titoli del debito sovrano – per una nuova categoria di intermediari (le «banche di trading»), cui sarebbe altresì precluso il comparto “commerciale” (depositi e servizi di pagamento).

Correttamente, la relazione accenna anche agli aspetti negativi di una simile idea: maggiori costi, incentivazione dello shadow banking. Eppure, viene apparentemente ignorato come anche gli enti creditizi più tradizionali possano trovarsi a compiere operazioni di natura formalmente finanziaria ma – purché non comportino l’assunzione di rischi eccessivi – assolutamente funzionali al buon andamento dell’attività bancaria tradizionale. Senza contare che la vigilanza cosiddetta «prudenziale» preferisce fissare delle soglie (si guardi per esempio, nel Dodd-Frank Act americano, alla cosiddetta Volcker rule), o anche sanzioni, incentivi e meccanismi premiali, molto più che vietare interi segmenti di attività come qui auspicato.

Risulterebbe decisamente subottimale, dunque, prendere alla lettera tutte le raccomandazioni della commissione o cercare di rispettarne lo spirito senza il giusto occhio critico.

Anche nel merito dei contenuti, tuttavia, sembra mancare qualcosa. La ratio della separazione tra l’attività commerciale e quella d’investimento viene correttamente individuata nella protezione degli investitori: si potrebbe eventualmente argomentare che, siccome la crisi di una banca può teoricamente coinvolgere alcuni stakeholders “deboli” (come i depositanti) che nulla hanno a che fare con l’attività cosiddetta “speculativa” – la quale è assolutamente legittima, nonostante il termine improprio e spesso male interpretato –, alla fine alcune risorse potrebbero essere drenate dal sistema bancario o dalla fiscalità generale per immunizzare tali categorie.

È un ragionamento che meriterebbe di essere difeso in sede europea, dal momento che in diversi Paesi – non in Italia – sono stati concessi cospicui aiuti di Stato alle banche in dissesto (bene ha fatto la commissione a ricordarlo), spesso con iniezioni di liquidità a pioggia. Nel nostro Paese, invece, gli interventi sono stati attuati in maniera circoscritta e secondo una logica di mercato, nonché per la difesa degli interessi più meritevoli di tutela: quelli di famiglie, imprese, piccoli risparmiatori in generale.

Riguardo all’esercizio della vigilanza, sembra ampiamente condivisibile l’auspicio che la Consob recepisca – soprattutto nell’iter di approvazione del prospetto informativo predisposto da una banca – le informazioni più rilevanti trasmesse da via Nazionale in seguito ad accertamenti sull’intermediario. L’idea sottostante è quella di una vigilanza «per finalità» fondata sul modello noto come twin peaks – adottato, per esempio, nel Regno Unito –, in cui un’autorità sia a capo della stabilità degli intermediari (tanto micro- quanto macro-prudenziale) e un’altra della trasparenza informativa e della protezione degli investitori. Un approccio che avrebbe indubbiamente il merito di fare chiarezza in un panorama oggi particolarmente variegato, nel quale l’azione di più autorità tende a sovrapporsi anche per la convergenza dei settori disciplinati (come tra Ivass e Covip, evidenzia commissione). Sarebbe ancor più benvenuto, poi, in un contesto che coinvolge molti più attori di quelli nazionali: non solo i gruppi più «significativi» soggiacciono al controllo della Bce, ma le European Supervisory Authorities (Eba, Esma, Eiopa) rivestono un ruolo di fondamentale importanza nella produzione normativa – sebbene di rango non primario – per tutti gli intermediari.

Altre proposte formulate en passant nella relazione finale sono apprezzabili, ma rischiano comunque di rimanere lettera morta senza un adeguato raccordo fra la normativa nazionale e quella comunitaria.

Sempre in materia di governance, da segnalare l’idea che la deliberazione su affidamenti di grande importo venga sottratta al consiglio d’amministrazione – potenzialmente soggetto a conflitti d’interesse gestiti in difformità dalla legge – e attribuito esclusivamente al management (ma così facendo si indebolirebbe il controllo dei soci, ancorché mediato dagli amministratori, sulle scelte creditizie più rilevanti).

Rimanendo in tema di compliance, è condivisibile l’auspicio che la vigilanza abbia un ruolo più diretto nella regolazione dell’attività bancaria, grazie al minore peso dei documenti prodotti dagli intermediari in sede di autovalutazione. Anche qui, però, la via da percorrere dovrebbe essere europea, se non addirittura internazionale: si pensi alle nuove regole sull’adeguatezza patrimoniale – nella recente revisione di Basilea III – che hanno introdotto i capital floor. Senza un’azione coordinata, infatti, si creerebbero soltanto nuove opportunità di arbitraggio regolamentare, a detrimento dell’efficacia.

Spetta al nuovo Parlamento e al nuovo governo decidere se concretizzare gli spunti migliori, promuovendo le istanze e le best practices italiane. Occorre però lasciarsi alle spalle ogni istinto genericamente punitivo suscitato dai casi di mala gestio, perché quelli virtuosi sono la maggioranza (e non andrebbero certo ignorati).