Lavorare in fabbrica è una scelta di ripiego? Errore, è il futuro

scritto da il 08 Maggio 2018

State cercando una occupazione ad elevata qualificazione dove confrontarvi con le tecnologie più evolute? Amate i luoghi puliti e luminosi? Non sopportate rumore e polvere? Bene, andate a lavorare in fabbrica. Un’affermazione un po’ provocatoria, ma neanche troppo, e lo sarà sempre meno nel prossimo futuro. Facciamo però un passo indietro. La percentuale di italiani impiegati nell’industria manifatturiera è calata negli ultimi vent’anni del 21,6%.[1] Questo trend non si spiega solo con l’incremento di produttività dato dal progresso tecnologico: nello stesso periodo, in Italia il peso di questo comparto sul PIL si è contratto del 20,1%,[2] ovvero sostanzialmente della stessa misura. Se ne deduce che il nostro Paese – come peraltro diversi altri fra quelli occidentali – ha conosciuto un progressivo e spiccato ridimensionamento della manifattura nel suo complesso.

Fin qui nulla di nuovo, direte voi. Tuttavia, oggi una serie di circostanze rendono più attuale che mai il dibattito su opportunità e rischi della terziarizzazione: siamo certi che un sistema produttivo dove la ‘Fabbrica’ gioca un ruolo marginale sia quello più adatto per la nostra economia? È davvero un processo inevitabile? Lo scenario è cambiato e ci riserva alcune sorprese.

Le circostanze sopra richiamate sono ascrivibili a due principali ordini di considerazioni. La prima la ispira il prof. Gary Pisano – Harvard Business School – nel suo libro ‘Producing Prosperity’, scritto con Willy Shih, dove si avanza una tesi che fa riflettere: nei paesi più avanzati, come gli Stati Uniti, mentre il dibattito sui rischi di una massiccia delocalizzazione produttiva si concentrava sulla perdita di posti di lavoro, è passato inosservato il fatto che le imprese occidentali così facendo stavano pure erodendo una fetta importante della loro capacità innovativa e creativa (che si spostava in Cina, India, Corea, etc.).

Proprio così: ci sono buone ragioni per credere che l’allontanamento dai problemi ‘di fabbrica’ porti ad essere meno innovativi. Negli ultimi decenni il paradigma dominante è stato quello della cosiddetta ‘Smiling Curve’: le imprese si sono focalizzate sulle attività a monte (ricerca) e a valle (marketing) della catena del valore, delegando ad altri le fasi produttive. Tuttavia, in molti contesti – pure nell’epoca di internet e della globalizzazione – l’innovazione richiede che ricerca e produzione siano funzioni integrate e ‘vicine’ fra loro: cognitivamente e culturalmente, non di rado anche geograficamente. La manifattura sta diventando qualcosa di molto sofisticato, dove il concept di prodotto nasce spesso nei luoghi di produzione, studiando vincoli tecnici e opportunità offerte dal paradigma della fabbrica digitale intelligente. L’innovazione è sistemica per definizione e quando non lo è – ossia quando non contamina trasversalmente tutte le funzioni aziendali – si resta con idee brillanti ma irrealizzabili, o fallaci alla prova del mercato.

Certo, questo principio di idiosincrasia fra ricerca e produzione non vale per qualsiasi business: esistono ancora settori dove l’adagio “testa qui e produzione dove vuoi purché costi poco” funziona ancora decisamente bene. Ma scricchiola nel caso della manifattura avanzata e di precisione (microelettronica, certe produzioni farmaceutiche, mass-customization, etc.), la quale rappresenta il futuro. Non solo: l’iper-agilità manageriale e produttività diventa un fattore competitivo dirompente. Le imprese moderne concepiscono prodotti e processi come prototipi permanenti che evolvono continuamente, reiterando molteplici fasi di sperimentazione rapida e ‘flash test’ sul mercato. In contesti di questo tipo la frammentazione della catena del valore – rivelatasi vincente nei decenni scorsi – diventa un freno all’innovazione, poiché chi fa ricerca deve conoscere bene cosa succede in fabbrica, e chi è in fabbrica è oggi attore centrale di cambiamento.

Si giunge così alla seconda considerazione fra le due sopra citate. Le tecnologie emergenti per loro natura rendono ancor più importante questa integrazione fra ricerca e produzione. Si pensi alla manifattura additiva, altresì chiamata stampa 3D: essa di fatto fonde insieme le fasi di progettazione e produzione in un tutt’uno. Oppure si consideri l’intelligenza artificiale (AI): l’attività di ricerca in questo campo nasce nel 1956 ma ha conosciuto un vero boom solo a partire dal 2011 (vedi figura 1), ossia in concomitanza con l’avvento della rivoluzione ‘Industry 4.0’, concetto coniato per la prima volta in un piano strategico del governo tedesco e presentato alla fiera di Hannover appunto nel 2011.

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Da questo momento in poi (vedi figura 2) l’intelligenza artificiale entra in una fase dove cala l’interesse verso applicazioni prettamente digitali – data processing e applicazioni per il management (es. office automation, planning, e-commerce, etc.) – e cresce quello per sistemi integrati fra software e hardware (‘Computer System’). L’intelligenza artificiale diventa un affare molto ‘di fabbrica’, per applicazioni come la robotica, la manutenzione preventiva o soluzioni radicalmente innovative come il ‘digital twin’, ossia repliche digitali di asset fisici, utilizzate per svariati motivi e che stanno diventano un trend fra i più promettenti del prossimo futuro.

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Un’ulteriore conferma di quanto affermato viene dai processi di reshoring, ossia aziende che decidono di riportare la produzione nei paesi d’origine (integralmente o in parte). Si tratta ancora di casi limitati, ma in crescita. E soprattutto sono imprese molto affini all’identikit sopra delineato, come la bolognese IMA leader mondiale nel packaging o Safilo nel comparto ottica. Se il ‘Made in Italy’ o questioni etiche vengono spesso citate come le motivazioni principali alla base del reshoring, qui si avanza l’ipotesi secondo cui il vero valore aggiunto sia la creazione di processi integrati che sostengono l’innovazione.

Non bisogna rilanciare l’attività manifatturiera e spingere il reshoring perché creerà posti di lavoro: sperare di rivivere un boom occupazionale di questo tipo è utopico. Non tutti lo dicono, ma (quasi) tutti lo pensano. Ciò ha creato il falso mito che possiamo farne a meno. Mito alimentato da un immaginario collettivo dove la fabbrica è un luogo buio, sporco e per chi ha studiato poco, quando oggi sta diventando l’esatto contrario. Chi punta su fabbriche digitali ed intelligenti crea i presupposti per l’innovazione vincente del prossimo futuro, la quale si propagherà poi in svariati settori attigui (con tutti i vantaggi del caso, benefici occupazionali compresi).

L’Italia come si pone in questo quadro? La figura 3 ci propone una lettura interessante[3]. Essa mette in relazione la produttività brevettuale legata all’intelligenza artificiale con la variazione percentuale di occupati nell’industria nel periodo 2011-2016. Sembra emergere una sorta di relazione ad U: da un lato, a sinistra, paesi come la Cina o Israele che utilizzano questa tecnologia per accrescere la produttività e avere fabbriche sempre più automatizzate, dall’altro, a destra, chi invece sta conoscendo un aumento degli occupati nel manifatturiero (o quantomeno una riduzione meno marcata) grazie all’intelligenza artificiale. In primis gli Stati Uniti, ma anche – ad esempio – Corea del Sud, Giappone, Germania. L’Italia dove si colloca? Nel mezzo, in cerca di una identità che andrà trovata urgentemente. I colleghi ricercatori staranno pensando che manca molto per affermare con certezza quanto suggerito dalla figura 3. Verissimo, ma gli indizi secondo cui abbiamo bisogno di una rinascita manifatturiera cominciano ad essere molti. Se sei un genitore, io ci penserei un attimo prima di inculcare a tuo figlio/a l’idea che lavorare in fabbrica sia una scelta di ripiego: molti degli ingegneri più brillanti e pagati del prossimo futuro li troveremo lì.

Twitter @sdenicolai

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[1] Fonte: International Labour Organization, 2017.

[2] Fonte: World Bank national accounts data and OECD National Accounts data files.

[3] Sono stati considerati tutti i brevetti che riportano nel titolo o nella descrizione le keywords ‘Intelligenza Artificiale’, ‘Machine Learning’, ‘Deep Learning’. Mancando una unica classificazione standard per i brevetti in tema di intelligenza artificiale, tali statistiche risentono delle definizioni adottate. Tuttavia, si segnala come i dati presentati in questa analisi siano in linea con quelli presentati in OECD, STI Micro-data Lab: Intellectual Property Database, http://oe.cd/ipstats June 2017.