Tutta colpa dell’euro. O forse no

scritto da il 08 Giugno 2018
Diego Valiante* lavora nelle istituzioni europee ed è docente a contratto all’Università di Bologna. È stato responsabile della ricerca su banche e mercati dei capitali al Centre for European Policy Studies di Bruxelles. È anche esperto di temi di politica economica legati all’area euro –
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La crisi istituzionale che ha attanagliato l’Italia è una crisi autoinflitta che si fonda su una visione sbagliata di come sia evoluto lo scenario economico globale ed europeo e di quale sia il ruolo dell’euro. È la crisi del 2008, piuttosto, che ha portato a galla problemi di un passato slegato dall’euro.

Nei giorni scorsi, i nostri titoli di stato hanno viaggiato sulle montagne russe, a tal punto che solo la piccola emissione del 30 maggio di 3,6 miliardi di BTP ci costerà oltre 400 milioni di euro di interessi in più a scadenza. Tutto questo avviene in un periodo in cui la BCE anestetizza i mercati con acquisti di titoli di stato italiani per circa 4 miliardi di euro al mese.

Ma come siamo arrivati a questo punto? I grandi numeri raccolti da M5S e Lega sono frutto di un disagio certamente comprensibile. Salari stagnanti, alta disoccupazione e crescita anemica sono solo alcune delle ragioni. La diagnostica però rimane alquanto deficitaria. Sebbene l’opportunistica retromarcia prima delle elezioni, nella maggioranza sembra che i problemi dell’Italia siano largamente riconducibili all’entrata nell’euro.

Facciamo parlare i numeri

L’euro è diventato il capro espiatorio di un paese che non si è mai totalmente ripreso dal modello di sviluppo basato su spesa pubblica e svalutazione. Infatti, mentre le svalutazioni competitive non hanno migliorato lo scenario storico di bassa produttività e salari reali stagnanti, si è diffusa una governance d’imprese ed istituzioni logorata da anni di commistione tra politica e affari, con una classe dirigente che fatica a riformare i settori chiave del paese, nella speranza che più spesa pubblica sciacqui via i propri mali. Intanto, rispetto al secolo scorso, la scorciatoia delle svalutazioni competitive non funziona in un sistema economico e finanziario integrato, dove il capitale si muove rapidamente. La credibilità è quello che permette l’accesso al mercato, tanto che uno studio recente mostra come la potenziale crescita dell’esportazioni, grazie ad una significativa svalutazione, è più che compensata dall’incremento dei costi di finanziamento per stato, imprese e cittadini (Bruno et al. 2018).

Ma analizziamo qualche dato.

1. Salari reali, crescita e disoccupazione sono agli stessi livelli o in situazione migliore rispetto al periodo pre-euro (§). Certamente, i salari reali potevano crescere di più, ma sono in linea con il trend pre-euro. Inoltre, fino alla crisi del 2008, i salari nominali e reddito disponibile sono cresciuti in linea con gli altri stati europei.

Figura 1. Disoccupazione, PIL reale, salari reali (1988-2017)

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Fonte. FMI e Istat.
Figura 2. Salari e reddito disponibile nominale

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Fonte: AMECO.

2. Anni di deficit ben oltre il 5% non han prodotto più crescita, ma hanno solo fatto crescere il debito pubblico. Solo la crisi del 2008 ha contribuito attraverso la perdita di PIL.

Figura 3. Finanze Pubbliche, PIL e Disoccupazione (1988-2018)

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Fonte: FMI.

3. La cura dimagrante pre-euro ha migliorato gli indicatori di produttività che, a loro volta, non sono stati impattati dall’euro, ma di nuovo dalla crisi del 2008.

Figura 4. Produttività (1991-2018)

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Fonte: AMECO e Istat.

4. Sebbene la posizione verso l’estero, in partite correnti, rimane leggermente al di sotto dell’area euro, si muove tuttavia in linea con quel trend. La perdita di partite correnti post-introduzione dell’euro sembra corrispondere ad un incremento elevato per i paesi emergenti, dovuto soprattutto all’apertura del commercio internazionale e l’entrata della Cina nel WTO (soprattutto nel manifatturiero, a cui l’Italia era più esposta).

Figura 5. Partite correnti su PIL (1980-2018)

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Fonte: FMI.

5. Intanto, l’entrata nell’euro porta giù il tasso d’inflazione intorno al 2% e i costi di finanziamento per lo stato, le imprese e i cittadini da valori a doppia cifra. La riduzione inizia con il risanamento dei conti pubblici e il recupero di credibilità, che servì a preparare l’arrivo della moneta unica.

Figura 6. Tassi d’interesse e inflazione (1984-2018)

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Fonte: Banca d’Italia, FMI.

6. La stabilizzazione finanziaria dell’Italia, con la riduzione dei tassi, ha fatto crescere la ricchezza netta degli italiani, ma moderatamente i redditi (già dal 1990), forse per la poca produttività e poi per le perdite della crisi del 2008. Questa situazione ha ridotto la capacità di risparmio. Gli indici di povertà per le famiglie sono, però, più bassi del pre-euro e la distribuzione del reddito è migliorata, per poi peggiorare dopo la crisi del 2008.

Figura 7. Ricchezza, Reddito e Povertà (1980-2017)

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Fonte: Banca d’Italia, Istat, Ameco.

Superare l’incompletezza dell’euro

Come noto, l’euro è incompleto. Sebbene questo non sia all’origine dei problemi dell’Italia, completarlo ci aiuterebbe a fare quelle riforme interne necessarie per migliorare la capacità di assorbimento di shock come quello del 2008. Nell’area euro manca ancora una vera unione finanziaria del mercato bancario e dei capitali che incrementi la condivisione del rischio tra privati, nonché stabilizzatori automatici basati su trasferimenti pubblici, come il meccanismo unico di sussidi alla disoccupazione e un budget per investimenti anti-crisi e, soprattutto, per colmare il divario nord-sud. È proprio quest’ultimo divario, non attribuibile all’euro, che ha allargato il gap tra l’Italia e il resto d’Europa, soprattutto in termini di occupazione e crescita.

Figura 8. Tasso d’occupazione – Nord, Centro, Sud e Isole

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Fonte: Istat.

Il mezzogiorno è, pertanto, una grande opportunità di crescita per l’Italia nei prossimi anni, che va abbracciata con un modello di sviluppo e un programma d’investimenti mirato e non agire solo in emergenza.

Il game of chickens non funzionerà

Invece di arrivare agguerriti sulle riforme strutturali per il paese e l’Europa, ci siamo presentati al resto d’Europa con un programma da 120 miliardi in nuove spese correnti senza coperture. Spesa in deficit che dovrebbe essere avallata da tutti al suono di minacce d’uscita dall’euro. Questo era l’approccio del ministro greco Varoufakis, le cui minacce di default sul debito detenuto dalla BCE fallirono miseramente perché gli altri stati, al suono di queste minacce, si stavano effettivamente preparando all’uscita disordinata della Grecia dalla moneta unica.

Certo, l’Italia non è la Grecia, e una sua potenziale rottura con l’euro potrebbe far collassare tutta l’Unione, ma è folle immaginare che una politica ricattatoria non trovi opposizioni nei rispettivi elettorati delle nazioni che dovrebbero avallare questo atteggiamento preferenziale verso l’Italia. Intanto, la meno competitiva Spagna ci ha superato per livelli di PIL pro-capite a parità di potere d’acquisto, partendo da una posizione pre-euro meno favorevole della nostra.

Si può e quindi si deve riformare l’Italia e l’Europa all’interno di quell’euro che non ci ha indebolito in alcun modo. Tutt’altro.

Twitter: @diegovaliante

 

RIFERIMENTI

Valentina Bruno, Se-Jik Kim and Hyun Song Shin (2018), “Exchange rates and the working capital channel of trade fluctuations”, Bank for International Settlements Working Papers, N. 694, available at https://t.co/j49gIA340G 

NOTA

§ L’euro fu ufficialmente introdotto nel 1999, ma i cambi bloccati già dal 1997.

DISCLAIMER 

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