Bitcoin e le altre criptovalute hanno già il fiatone. Ecco cosa ne resterà

scritto da il 02 Luglio 2018

Chi avesse ancora voglia di cimentarsi con i misteri di bitcoin, può togliersi la voglia scorrendo l’ottimo approfondimento che la Bis ha dedicato alle criptovalute nel suo ultimo rapporto annuale. Una ventina di pagine dove si spiega con grande chiarezza perché le valute come bitcoin non si possano considerare moneta e perché in generale questa tecnologia generi più problemi che opportunità. La circostanza che alcuni usino bitcoin non sembra possa impedire che il posto più naturale al quale sembrano destinate queste valute virtuali sia quello del cimitero delle monete che già vari musei, come il British museum, amano esporre per ricordarci quanto sia facile creare una moneta e quanto sia facilissimo che muoia subito dopo.

Ovviamente la Bis non dice che sarà questa la fine di bitcoin e delle altre criptovalute che nascono come funghi in un mondo intossicato dal denaro facile e dalle mitologie anti sistema. Però una cosa si può affermarla con una ragionevole certezza: finché l’assetto istituzionale internazionale nella gestione della moneta si articolerà nella trinità stato-banca centrale-banche commerciali, con le banche centrali grandi protagonisti del gioco, gli spazi per le monete virtuali semplicemente non esistono. Ci sono al massimo piccole nicchie di utilizzatori che, a loro rischio e pericolo, gestiscono un asset difficile da capire e ancora più difficile da spiegare. Col che mostrandosi il limite intrinseco di questa tecnologia. Una cosa che ha bisogno di essere spiegata non può essere una moneta, come dovrebbe insegnarci l’esperienza di ogni giorno. Se chiedete a chiunque cosa sia la moneta, ognuno vi risponderà mettendo semplicemente mano al portafogli. Il resto è roba da apprendisti stregoni.

Detto diversamente, l’affermazione delle criptovalute implica la profonda trasformazione del modello di società al quale siamo abituati da secoli e che ci ha messo secoli a conformarsi. Il che è sicuramente possibile, ma non certamente probabile, almeno nel periodo che ci è concesso osservare. Vale la pena spendere comunque qualche parola in più perché l’analisi della Bis fornisce chiarimenti utili che giovano molto a dissipare alcuni luoghi comuni e molte fantasie che inducono a pensare la moneta come qualcosa di cui possiamo disporre liberamente e a nostro piacimento, quando invece si tratta di strumento tanto potente quanto fragile. E ancora una volta il cimitero delle monete è un ottimo promemoria.

La storia, anche recente, è popolata di episodi in cui il pensiero magico dei cattivi gestori della moneta ha determinato autentiche tragedie. E per intendersi sui fondamentali, è meglio partire dalla definizione che dà la Bis della moneta, ossia una “convenzione sociale indispensabile sostenuta da un’istituzione statale che rende conto del suo operato e gode della fiducia dei cittadini”. Già questa definizione contiene tutti gli ingredienti della ricetta per una buona moneta. Ossia la convenzione sociale e l’istituzione statale che siglano quell’alleanza “pubblico-privato tra la banca centrale e le banche private, con la banca centrale al centro del sistema” che regola l’offerta di moneta “in quasi tutte le economie moderne”. Parliamo di un equilibrio che si è consolidato nel corso dei secoli e che i cantori delle valute virtuali, bravi in informatica ma scarsi in storia, pensano di rivoluzionare a suon di gigabyte. Probabilmente anche ignorando sostanzialmente il funzionamento del sistema bancario. L’esser banca è di per sé uno stigma che non necessita di altre sottolineatura per i profeti antisistema.

Ai più curiosi farà piacere sapere invece che “grazie al coinvolgimento attivo delle banche centrali, i diversi sistemi di pagamento oggi utilizzati sono sicuri, presentano un buon rapporto costi-efficacia, permettono scalabilità e godono della fiducia rispetto al fatto che un pagamento, una volta effettuato, è definitivo”. In sostanza le criptovalute si propongono come alternativa a questo modello, non soltanto per la valuta in sé, ma soprattutto per l’infrastruttura.

“Gli utenti non devono avere fiducia solo nella moneta in sé, ma anche nel fatto che un pagamento verrà effettuato prontamente e senza intoppi”, spiega la Bis. Per questo la sfida di Bitcoin si gioca, più che sull’asset, sulla blockchain, ossia il libro mastro distribuito (DLT) dove vengono cifrate tutte le transazioni effettuate peer-to-peer e che devono essere autenticate dai minatori per generare la ricompensa denominata in nuovi bitcoin. “Con un ledger distribuito, lo scambio peer-to-peer di moneta digitale è fattibile: ogni utente può verificare direttamente nella sua copia del ledger se un trasferimento è stato effettuato e che non vi siano stati tentativi di doppia spesa”.

La mitologia di bitcoin, che vede nella liberazione dal “potere bancario” la panacea di ogni male economico, poggia su alcuni presupposti che è opportuno sottolineare, perché spesso gli utilizzatori, attratti dai movimenti speculativi, non ne hanno consapevolezza. In particolare questa tecnologia funziona se “la larga maggioranza della potenza computazionale è controllata da miner onesti, gli utenti verificano la storia di tutte le transazioni e l’offerta di valuta sia predeterminata da un protocollo”.

Giudicate voi quanto tali presupposti siano coerenti con la realtà.

Intanto è utile sapere alcune cose. L’utopia di bitcoin non vive nell’immaginazione di chi l’ha pensata ma genera già enormi ricadute sociali, intanto per i costi che esprime. “Al momento della stesura del capitolo – scrive la Bis -, l’energia elettrica totale utilizzata per l’estrazione (mining) di bitcoin era equivalente a quella di economie di medie dimensioni come la Svizzera, e anche altre criptovalute usano ingenti quantità di energia elettrica. Per dirla nel modo più semplice possibile, la ricerca di una fiducia decentralizzata è diventata rapidamente un disastro ambientale”.

E poi ci sono le questioni tecniche sulle quali non serve dilungarsi. Basti sapere che se bitcoin dovesse processare la quantità di transazioni al momento gestite dai sistemi di pagamento tradizionali, “i relativi volumi di comunicazione, con milioni di utenti che si scambiano file dell’ordine di grandezza di un terabyte, potrebbero provocare un black out di internet”.

Rimane da chiedersi cosa rimarrà di questa rivoluzione vagamente effimera al termine della sua epopea. Dando per scontato che così com’è stato pensato il sistema di pagamento decentralizzato non potrà mai sostituirsi ai mezzi di pagamenti tradizionali basati su monete bancarie, qualcosa di questa tecnologia potrebbe scampare al destino di un sostanziale fallimento che al momento sembra prevalere nelle previsioni degli esperti. Le monete virtuali nascono e muoiono a centinaia – bitcoin è solo quella più nota – e al momento se ne contano migliaia. Questo in qualche modo vuol dire che sono molto più effimere di quel che sembrano e che servono gli interessi di pochi minatori che, al costo energetico che abbiamo detto, lucrano su questa attività.

Al contrario molto più concreto potrà essere l’utilizzo del DLT, che, scrive la Bis “può essere efficace in contesti di nicchia, dove i benefici di un accesso decentralizzato superano i costi operativi più elevati del mantenimento di molteplici copie del ledger”. In sostanza, più che le criptovalute, che non funzionano come moneta, sono i sistemi di criptopagamento che possono risultare utili. Come esempio viene fatto quello delle rimesse degli immigrati, che pesano annualmente 540 miliardi di dollari l’anno e generano notevoli costi di transazione. Ma anche qui, altre soluzioni sono possibili.

Le banche centrali sono ben consapevoli che dovranno in qualche modo fare i conti con questa spinta all’innovazione e anche il dibattito sull’opportunità di emettere una digital currency di banca centrale ne è la conferma. Rimane il fatto che, nella storia monetaria, vince chi ha più fiato. E le valute virtuali hanno già il fiatone.

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