Il White Paper su Brexit è un passo avanti o no in vista della deadline di ottobre?

scritto da il 12 Luglio 2018

Pubblichiamo un post di Mario Angiolillo, direttore dell’Osservatorio Relazioni EU-UK-USA di  The Smart Institute. Esperto di tematiche geopolitiche e di relazioni internazionali, svolge attività di advisory per diverse società con particolare riferimento agli impatti e alle opportunità offerte da Brexit

Dopo l’aggiornamento dei negoziati su Brexit a seguito del Consiglio Europeo del 28-29 giugno scorso, il percorso verso un accordo sulle future relazioni in poche ore ha subito prima una sensibile accelerazione, poi un rallentamento, e si trova adesso in una situazione di incertezza.

L’accelerazione si è avuta con l’accordo trovato nella residenza di Chequers tra i ministri di Theresa May sul White Paper contenente la proposta del Regno Unito da inviare ai negoziatori della Commissione Europea guidati da Michel Barnier.

L’intesa di Chequers consiste nella realizzazione di un accordo doganale facilitato da conseguire allineando i regolamenti sulle merci dei settori agricoli e industriali a quelli dell’UE e implementando una serie di controlli telematici avanzati alle dogane in grado di definire se le merci sono destinate nel Regno Unito o sul territorio dell’Unione Europea e in quest’ultimo caso riscuotere le tariffe nelle dogane britanniche per poi rigirarle all’Unione Europea.
In attesa di conoscere la posizione dei negoziatori UE si può affermare che un accordo su queste basi potrebbe verosimilmente conseguire dei risultati equilibrati nell’interesse di ambo le parti.

Garantirebbe infatti la possibilità di procedere negli scambi commerciali tra i due versanti della Manica senza dover ricorrere all’implementazione di un sistema di tariffe doganali e grazie all’informatizzazione delle dogane permetterebbe alle merci in transito di non incorrere in ritardi nello sdoganamento per effetto dei controlli.

Allo stesso tempo pur conseguendo questi risultati, non configurerebbe né la permanenza del Regno Unito nell’European Economic Area né all’interno dell’Unione doganale permettendo pertanto al Governo britannico di perseguire un’autonoma politica commerciale potendo sottoscrivere liberamente accordi commerciali con Paesi terzi e slegando allo stesso tempo l’Unione Europea da vincoli con il Regno Unito nella realizzazione di ulteriori accordi con paesi Extra UE. Inoltre scongiurerebbe l’ipotesi di istituire un Hard Border al confine Irlandese.

La proposta presenta anche alcuni elementi che necessitano un supplemento di approfondimento. Da una parte è da verificare l’effettiva possibilità di implementare dei processi informatizzati alle dogane in grado di raggiungere i risultati attesi. Inoltre tale proposta contempla lo scambio di merci ma non ancora lo scambio di servizi, in particolare i servizi finanziari, che rappresentano per importanza e volumi uno dei punti cruciali delle future relazioni, e per i quali il confronto tra i negoziatori delle due parti non ha ancora fatto registrare significativi passi in avanti nonostante ci fosse stata un’intesa di massima lo scorso aprile sull’istituzione di una Task Force per affrontare la questione a seguito di incontro tra il capo dei servizi finanziari dell’Unione Europea Dombrovskis, il governatore della Banca di Inghilterra Carney e il ministro delle finanze britannico Hammond.

Se l’accordo sul White Paper rappresenta un indubbio passo avanti nei negoziati con l’UE, nell’arco di poche ore si è assistito ad una brusca frenata a seguito delle dimissioni dal Governo Britannico in sequenza prima del Ministro alla Brexit David Davis, che aveva finora seguito i negoziati, poi del ministro degli esteri Boris Johnson.

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Entrambi hanno motivato il gesto con la contrarietà a quello che hanno definito un eccesso di concessioni all’Unione Europea considerando l’accordo di Chequers come una virata verso una Soft Brexit.

Uno dei punti controversi è verosimilmente quello dell’allineamento dei regolamenti che potrebbe avere l’effetto di configurare delle barriere non tariffarie, con i produttori britannici che esportano in UE che dovrebbero dimostrare, con un aggravio di costi diretti e di processo, di rispettare queste regole e di non essere equiparabili ai produttori di merci provenienti da paesi terzi soggetti alle tariffe dell’UE.

Ma probabilmente non si tratta solo di questo, ma di una vera e propria strategia politica sul futuro delle relazioni tra Regno Unito e Unione Europea che nelle intenzioni di quei Brexiteers fautori di una Hard Brexit dovrebbero diventare sempre meno rigide per portare il Regno Unito a perseguire una autonoma strategia sui mercati internazionali all’occorrenza anche in concorrenza con l’UE. È in quest’ottica può essere letto il plauso dei due ministri dimissionari alle parole dell’Ambasciatore americano che ha rilanciato la proposta di un accordo di libero scambio tra USA e Regno Unito a pochi giorni dalla visita a Londra del presidente Trump.

La linea tenuta da Boris Johnson e David Davis, sembra confermare l’analisi effettuata all’indomani della vittoria del Leave al referendum su Brexit dall’avvocato d’affari Bepi Pezzulli, presidente del Comitato Select Milano, e riportata in un suo recente libro. Secondo questa analisi la Brexit nasce da una precisa strategia messa a punto da ambienti “euroscettici” ben inseriti nelle istituzioni britanniche e insofferenti verso un’Unione Europea percepita a trazione tedesca e gli Hedge Funds inglesi preoccupati dagli effetti del surplus commerciale tedesco sulla bilancia commerciale dell’eurozona, una strategia avente il chiaro intento di slegare il Regno Unito dai vincoli europei per riposizionare l’economia britannica in maniera autonoma verso più intensi rapporti con la Cina e il mondo Arabo.

In quest’ottica andrebbero quindi considerate le relazioni avviate con Pechino al fine di inserire il Regno Unito sulla nuova via della seta, così come l’ingresso della valuta cinese, il Renminbi, tra le valute di riserva del Fondo Monetario Internazionale grazie ad un’intesa intercorsa sulla piazza finanziaria della City con lo sviluppo di un pool di liquidità cinese su Londra e l’accordo a garanzia delle contrattazioni tra le due banche centrali, la Bank of England e la People’s Bank of China. E sempre in quest’ottica vanno considerate le attività diplomatiche riguardanti l’Aramco, la compagnia petrolifera di bandiera dell’Arabia Saudita, in procinto di essere privatizzata nel 2019, che è proprio la data termine prevista per Brexit.

Obiettivo finale di questa strategia sarebbe quello di riposizionare il Regno Unito tra gli USA a Occidente e la Cina a Oriente, facendo di Londra la Singapore dell’Atlantico, una sorta di zona franca dalla quale far transitare una sempre più ingente quantità di investimenti, perseguendo la strategia di “Global Britain” o “Empire 2.0” cui sembrano fare riferimento le posizioni tenute finora da Boris Johnson e David Davis e da una parte consistente del fronte dei Brexiters.

Di certo la deadline per la definizione di un accordo su Brexit, fissata per il Consiglio Europeo di ottobre, si avvicina e, come fatto rilevare da Michel Barnier e Donald Tusk, è importante che il Governo di Theresa May definisca la propria posizione cercando una soluzione per superare i contrasti dovuti alle differenti strategie all’interno degli stessi Tories.

L’incertezza sulle future relazioni non fa bene alla stabilità e alla programmazione delle iniziative commerciali ed economiche europee e britanniche, nonostante, è opportuno sottolinearlo, finora Brexit non abbia sortito gli effetti negativi che alcuni temevano.

A due anni dal referendum del 2016 i principali indicatori dell’economia britannica segnano un trend migliore rispetto alle previsioni della vigilia del referendum. Ad una sensibile svalutazione della sterlina, pari a oltre il 7%, ha fatto fronte un trend stabile del Pil, all’1,9% nel 2016 e al 1,8% nel 2017 secondo l’Office for National Statistics, sostenuto anche dall’incremento delle esportazioni pari a oltre il 15% annuo, favorite a loro volta dal deprezzamento della sterlina, e con un saldo della bilancia commerciale mantenutosi in equilibrio nel biennio. Mantenuta quasi nei parametri l’inflazione, al 2,4% contro il target del 2%, si è assistito ad un notevole calo della disoccupazione attualmente di poco sopra al 4% che rappresenta il migliore indicatore da oltre 40 anni pur in presenza di un leggero calo dei salari reali per effetto dell’incremento dell’inflazione.

In questo contesto, l’entità delle relazioni commerciali tra Unione Europea e Regno Unito è rimasta di primaria importanza sia nel 2016 che nel 2017 con circa 600 mld di euro di scambi commerciali nel 2015, secondo fonti dell’Office for National Statistics, incrementati ad oltre 650 mld nel 2016 dopo il referendum su Brexit e mantenuti pressoché invariati nel 2017. Con un trend analogo per l’Italia che esporta verso il Regno Unito 23 mld di euro per un ammontare complessivo di scambi commerciali pari a 42 mld di euro annui.

Proprio l’entità e l’efficacia dei rapporti in essere tra Ue e UK fa sì che un’intesa equilibrata sia nell’interesse di ambo le parti e entrambi i pool di negoziatori dovranno dimostrare di essere disponibili ad un dialogo fattivo, con concessioni reciproche.

Una soluzione che potrebbe tenere in una cornice unitaria tutte le posizioni, e quindi il mantenimento di intense ed efficaci relazioni commerciali ed economiche tra Unione Europea e Regno Unito e al contempo il mantenimento di una centralità dei due blocchi negli equilibri geopolitici, potrebbe essere quella di proseguire nell’accordo sulle future relazioni per il dopo Brexit guardando già alla ripresa del dialogo con gli USA per riavviare il confronto per la realizzazione della Transatlantic Trade and Investment Partnership (TTIP), così da ripartire da una rinnovata sinergia tra i tre blocchi dell’area atlantica che in uno scenario economico sempre più multipolare rappresenta condizione essenziale per lo sviluppo di ordinate relazioni commerciali ed economiche e per l’avvio di una nuova fase di stabilità e di crescita nel panorama globale.

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