Perché la rivoluzione tech più importante del secolo non è uno schema Ponzi

scritto da il 12 Settembre 2018

L’autore di questo post è Claudio Parrinello. Imprenditore seriale, attualmente CEO di UNICO, un progetto sulla blockchain EOS. Dopo aver conseguito il Diploma di Perfezionamento (dottorato) in Fisica alla Scuola Normale Superiore di Pisa, è stato ricercatore in Gran Bretagna e poi manager al CERN di Ginevra

Anche in Italia (finalmente!) si comincia a parlare molto di bitcoin, criptomonete, blockchain, smart contract, eccetera. Mentre è plausibile che i termini summenzionati vengano spesso utilizzati dai non addetti ai lavori senza una vera comprensione dei concetti sottostanti, è meno accettabile che la stampa e la televisione affrontino spesso queste tematiche in modo sciatto e superficiale. Ci si limita per lo più ad inviare messaggi allarmanti legati alla volatilità dei prezzi delle criptomonete (“la bolla è scoppiata”), suggerendo che la rivoluzione tecnologica più importante di questo inizio di secolo si possa derubricare come una sorta di schema di Ponzi 2.0, o nel migliore dei casi come un giochetto da nerd informatici.

Avendo passato 30 anni della mia vita a produrre e a gestire innovazione, mi sento per l’appunto di affermare che le Distributed Ledger Technologies (DLT, o blockchain per semplicità, a rischio di essere un po’ impreciso) stanno per innescare dei cambiamenti epocali.

In questo articolo mi propongo di fornire qualche elemento di comprensione in linguaggio non tecnico di cosa sia il mondo della blockchain e del perché nessuno di noi possa permettersi di ignorarlo. Successivamente parlerò più in dettaglio delle nuove opportunità imprenditoriali create da questa tecnologia e di come il nostro paese potrebbe creare un ecosistema favorevole allo sfruttamento di tali opportunità.

Cominciamo dall’inizio: il tutto nasce da una riflessione ideologica oltre che tecnologica intorno alla nozione di certificazione. Siamo abituati da millenni ad affidare la gestione e la verifica delle transazioni importanti (finanziarie, immobiliari, matrimoni, ecc.) ad autorità “centralizzate”, rappresentate da enti (banche, compagnie di assicurazioni, ecc) o professionisti certificati dallo Stato (avvocati, notai, ecc). Il movimento blockchain parte invece dal presupposto che qualunque autorità centralizzata può sbagliare o essere corrotta, e qualunque base dati centralizzata, come ad esempio quella di un catasto, non è sicura: può essere attaccata o comunque andare distrutta accidentalmente. Per questo, la blockchain introduce un sistema di certificazione delle transazioni e gestione dei dati collettiva, decentralizzata. Senza entrare in dettagli tecnici, basti dire che la sicurezza di una blockchain è legata all’esistenza di un congruo numero di “certificatori” indipendenti e, in molti casi, all’uso di sistemi di crittografia avanzata.

Da un punto di vista economico, una blockchain è quindi un’entità (una sorta di azienda senza una dirigenza centralizzata) che produce valore, fornendo un servizio avanzato di certificazione, trasmissione e stoccaggio di dati. Questo servizio ha ovviamente un costo industriale, che (semplificando) è il costo delle risorse informatiche (server, connessioni dati, ecc) che fanno “girare” la blockchain, più il costo delle risorse umane che si occupano del monitoraggio della rete, della sua sicurezza e del continuo aggiornamento del software. Niente di nuovo, del resto: è sicuramente chiaro a tutti che Internet, cioè l’infrastruttura su cui si appoggia ogni blockchain pubblica, ha un suo costo industriale.

In termini di costi, potremmo paragonare “l’azienda blockchain” a un servizio ferroviario di trasporto delle persone, con i relativi costi di esercizio e manutenzione delle motrici, gli stipendi del personale di controllo, ecc., mentre internet è l’analogo dell’infrastruttura ferroviaria sottostante (binari, linee elettriche, ecc).

Si parla spesso dei grandi consumi di energia elettrica legati alla gestione di una blockchain, e in particolare al processo di certificazione delle transazioni. Questa energia va confrontata non al “nulla”, ma all’impatto energetico ed economico degli scenari alternativi per la fornitura di un servizio sicuro di certificazione e trasmissione dati in un caso concreto, ad esempio la gestione dei beni immobiliari. Se analizziamo i costi e l’impatto ambientale dell’esistenza di uffici del catasto, di un sistema di notai sul territorio, ecc, non è difficile dimostrare che una gestione delle transazioni e dei registri di dati basata sulla blockchain è potenzialmente più economica, “verde” ed efficiente dello status quo.

Dove entrano le criptomonete in tutto ciò? A differenza di internet, una blockchain ha una componente strutturale che permette di contabilizzare i costi, retribuire i “certificatori” e gestire tutti i trasferimenti di valore all’interno dell’ecosistema in modo molto semplice: la famosa (o famigerata) criptomoneta. Ogni blockchain ha la sua, che non nasce quindi come strumento finanziario speculativo, bensì come “moneta interna”.

In successivi articoli illustrerò casi d’uso concreti delle tecnologie sopradescritte e proverò a suggerire come da un punto di vista imprenditoriale si possa salire sul “treno” della blockchain.

Anticipo solo che ragioneremo su tre tipi di opportunità e strategie:

1.  Fornire servizi a valore aggiunto che utilizzano una blockchain.

2. Diventare “certificatori” di transazioni su una o più blockchain.

3. Investire direttamente in criptomoneta

Le prime due strategie creano potenzialmente molto valore nel Sistema Italia, innescando un processo virtuoso di creazione di start-up innovative, impiego, internalizzazione e acquisizione di know-how avanzato. La terza strategia, meramente finanziaria, è a mio avviso la meno rilevante da un punto di vista sociale e la più rischiosa, ma è purtroppo l’unica di cui si parla tutti i giorni nei media.

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