Banche e Lehman, due miti sulla crisi e la patata bollente di oggi

scritto da il 25 Settembre 2018

Il decennale del fallimento di Lehman Brothers è stata l’occasione per ricordare e rielaborare quanto avvenuto allora, le cause della crisi, i fallimenti e le misure che furono prese per contenere il disastro. Numerosi sono stati gli eventi ed i contributi prodotti in questo mese che hanno avuto come tema la great financial crisis – GFC, l’ultima crisi finanziaria globale. Tra tutti quelli che ho avuto modo di leggere o vedere in questi giorni, uno in particolare è sicuramente degno di menzione, ed è l’articolo di Hyun Song Shin, consigliere economico e capo della ricerca della Banca per i Regolamenti Internazionali (BIS), pubblicato sul quotidiano tedesco Frankfurter Allgemeine Zeitung (qui nella versione in inglese).

L’articolo si focalizza su due principali “miti” che negli anni si sono formati nella ricostruzione del processo attraverso cui si è arrivati all’esplosione della crisi globale.

Un primo mito si riferisce al fatto che la securitization, l’impacchettamento degli attivi bancari in titoli strutturati, abbia stimolato il moral hazard dei banchieri, ed in questo modo costruito gli incentivi (o eliminato i disincentivi) affinché venissero erogati sempre più mutui o altre forme di finanziamento, anche a soggetti che non avevano sufficienti requisiti di solvibilità. Questo mito, amplificato anche dal fatto di essere un tema centrale nel famoso film “the big short”, contrasta però con l’evidenza che i principali fallimenti e bancarotte siano avvenuti proprio all’interno del sistema bancario. Se la securitization permetteva alle banche di trasferire il rischio di questi prestiti fuori dal sistema, verso, ad esempio, fondi pensione o fondi d’investimento, perché allora proprio le banche, e non i fondi pensione, sono falliti? In verità, come spiega efficacemente Shin, il rischio è sempre stato concentrato all’interno del sistema bancario e lì è rimasto. La securitization ha invece consentito di creare e ampliare i collaterali di buona qualità che le banche utilizzano per rifinanziare la loro attività; le banche in questo modo hanno potuto ampliare la dimensione dei loro bilanci, ampliare il grado di leverage, e migliorare i coefficienti di profittabilità (e quindi i bonus per il management). Il gioco si è inceppato, per il settore bancario, nel momento in cui i collaterali che utilizzavano per rifinanziarsi hanno iniziato a perdere di valore. Mancando sufficienti collaterali, mancava la liquidità necessaria per rifinanziarsi. E così si è propagata la crisi.

Un secondo mito riguarda il ruolo delle banche europee. È abbastanza diffusa la narrativa per la quale le banche europee siano state vittime di una crisi essenzialmente del sistema bancario americano e che siano state “contagiate” in un secondo tempo dalla crisi. I dati invece rilevano come le banche europee fossero anch’esse parte attiva nel processo di espansione dei bilanci che faceva leva sull’indebitamento del settore privato americano. Nel 2002 esse avevano 856 miliardi di attività denominate in dollari verso il mercato americano. Dopo solo 5 anni, nel 2007, avevano aumentato l’esposizione di 1200 miliardi, ad oltre 2000 (fig. 1).

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Fig. 1 Attività cross-border denominate in dollari 2002 vs 2007. Tratto da H.S. Shin: “Reflections on the Lehman collapse, 10 years later”

Le banche maggiormente esposte erano essenzialmente concentrate in 4 principali Paesi: Regno Unito, Germania, Francia e Olanda. Queste banche erano parte integrante del sistema finanziario americano, e, al pari delle loro concorrenti statunitensi, si finanziavano sul mercato monetario in dollari ed investivano nel mercato dei mutui USA. A differenza però delle loro concorrenti americane non avevano accesso al rifinanziamento della Federal Reserve, ed una volta che il mercato monetario del dollaro si è inceppato, una volta che i collaterali da offrire per rifinanziarsi in dollari non sono stati più sufficienti, la crisi si è presto propagata nel nostro continente. Shin evidenzia come, alla fine del 2009, le perdite che gli istituti finanziari europei hanno sofferto siano state del tutto paragonabili a quelle sofferte dalle banche USA, 520 miliardi di dollari contro 708 di quelle americane, mentre le perdite delle altre banche internazionali sono state del tutto trascurabili.

Analizzati questi due aspetti Shin conclude con un richiamo alla situazione attuale. Una situazione che, al pari di quella del 2007, è caratterizzata da importanti fragilità. Sebbene le banche internazionali abbiano diminuito il proprio leverage e migliorato i loro coefficienti di liquidità, siano pertanto più resilienti rispetto a quanto non lo fossero 10 anni fa, l’indebitamento nel sistema finanziario americano (e globale) non è certo diminuito. Si sono soltanto modificati i settori detentori di tale indebitamento, in cui le banche non sono più a far la parte del leone, ma lo sono i fondi pensione, i fondi d’investimento, le assicurazioni. I tassi a zero per lunghi periodi di tempo hanno spinto quest’ultimi soggetti alla ricerca di investimenti che garantissero sufficienti rendimenti, trasformandoli, questa volta sì, nei perfetti destinatari finali del processo di securitization degli attivi bancari.

A tal proposito Shin afferma che il “passaggio della patata bollente” (intendendo il trasferimento a soggetti terzi dei prestiti strutturati) è molto più vicino alla realtà adesso di quanto non lo fosse prima della crisi. Questa tendenza è confermata anche guardando al sistema finanziario europeo, con le esposizioni del settore bancario che sono scese di circa 650 miliardi di dollari (-186 per le banche francesi, -258 per quelle britanniche, -207 per quelle olandesi, mentre le banche tedesche hanno aumentato la loro esposizione per 28 miliardi), ma con fondi pensione e compagnie di assicurazione che sono diventati grandi acquirenti di prodotti finanziari strutturati.

Resta così da valutare quanto questi soggetti saranno in grado di assorbire eventuali perdite e di come i sistemi pensionistici e assicurativi europei e americani nel complesso reggeranno l’urto di una nuova, non sappiamo quanto prossima, caduta di valore dei prodotti finanziari in circolazione.

Twitter @francelenzi