Banchiere, burocrate, ucciso dalla mafia: l’importanza attuale del caso Notarbartolo

scritto da il 28 Ottobre 2018

Lo scorso anno è stato pubblicato un lungo ed importante volume, “Storia del Banco di Sicilia”(1), opera di grande interesse che ripercorre pedissequamente i centoventiquattro anni di storia dell’istituto e, per le sue vicende, di un’intera Regione.

Luci e ombre di una banca pubblica, inizialmente anche istituto d’emissione, protagonista nella spinta alla crescita nel secondo dopoguerra, esauritasi insieme alla Prima Repubblica in compagnia di quasi tutto il sistema dell’intervento pubblico nell’economia, macellato da sprechi e scandali.

Tra gli episodi che ne hanno segnato la storia, rientra a pieno diritto l’omicidio di Emanuele Notarbartolo, prestigioso Direttore Generale del Banco dal 1876 al 1890. Avvenuto nel 1893, passato alle cronache come il primo vero omicidio eccellente di mafia, l’episodio contiene al suo interno un ingarbugliato intreccio tra banche, mafia e politica, in una stagione già segnata dallo scandalo della Banca Romana. Intrecci raccontati in un libro, ripubblicato nel 2018, scritto da Leopoldo Notarbartolo[2] per ripercorrere la vita di quel padre barbaramente trucidato con una serie di coltellate e gettato da un treno.

Due libri, dai quali fuoriesce la figura integerrima di Notarbartolo, contrapposta a quella del presunto mandante dell’assassinio, Raffaele Palizzolo, membro del Consiglio Generale del Banco e deputato. Presunto mandante, perché la vicenda giudiziaria lo vide infine assolto, insieme al presunto esecutore materiale (il mafioso Giuseppe Fontana), dopo un’iniziale condanna inflitta dalla Corte d’Assise di Bologna ed un annullamento con rinvio deciso dalla Corte di Cassazione, a causa di un vizio dibattimentale sull’escussione di un testimone del tutto inutile ai fini del processo.

Notarbartolo, che quando il Governo lo nominò Direttore Generale del Banco era ancora Sindaco di Palermo, si trovò -agli inizi del mandato- a dover risanare una crisi dovuta da ciò che oggi chiamiamo “non performing loans, crediti facili concessi ed un’esposizione eccessiva soprattutto nei confronti della Trinacria (casa armatoriale) e della Genuardi (zolfo). «Come era emerso con la crisi della Trinacria, le forme di selezione dei debitori e allocazione del credito concretamente praticate dalle commissioni locali tendevano a costituire una variante di insider trading, come era emerso con il barone Genuardi, in cui i vantaggi informativi degli operatori locali presenti nelle commissioni di sconto non erano utilizzati per ridurre i costi e alzare l’efficienza, ma in cui invece il sistema catturava le risorse generate dal Banco per utilità particolari (…)». Per reagire ad una tale situazione, «Notarbartolo introdusse il “castelletto” quale strumento di concessione dei crediti da accordarsi sino a un massimo e impose una marcata riduzione degli effetti di comodo».[3]

Non fu solo un eccellente risanamento contabile, ma anche organizzativo e metodologico, con controlli interni e forgiatura del personale ad immagine e somiglianza del Direttore. Così scrive il figlio: «I suoi impiegati sapevano che vegliava su loro con senso inflessibile di giustizia, che non gli sfuggiva una negligenza; che non avrebbe tollerato uno scarto dall’onore (…) Sapevan anche che si preoccupava di ogni loro bisogno (…) che una volta ottenuta la sua stima, non sarebbero più stati trattati come inferiori, ma come collaboratori e compagni. (…) Vedevano il suo esempio: il disinteresse e l’abnegazione con cui dava tutto se stesso all’opera comune, e inconsciamente o no lo imitavano[4].

Dopo esser stato rapito dai briganti nel 1882, liberato a seguito di pagamento di un riscatto, fu sempre in aspri rapporti con il Consiglio Generale, l’organo “politico” del Banco, formato da molti personaggi in conflitto d’interesse con altre banche o aziende private, contrariate dall’eccessiva rigidità del Direttore Generale. Notarbartolo tentò invano di intercedere con il Governo per la riforma dello Statuto, ma alla fine fu lui ad essere cacciato, nel 1890, per volere di un altro siciliano, Francesco Crispi, all’epoca Presidente del Consiglio.

Fu certamente una vittoria per il Consiglio e per Palizzolo. Negli anni successivi, il Banco divenne oggetto di attività speculative, sotto la guida di Giulio Benso duca della Verdura. L’intreccio affaristico venne fuori nel caso del rastrellamento delle azioni della Navigazione Generale Italiana (“NGI”), avvenuto con i soldi del Banco a vantaggio, tra gli altri, proprio di Palizzolo. Grazie anche a Notarbartolo, l’operazione venne smascherata e diede vita ad un’ispezione. Poteva essere il preludio per il necessario ritorno di Notarbartolo alla guida del Banco e, forse per tal movente, lo stesso venne assassinato.

Ma chi era Palizzolo? Per il grande politologo Gaetano Mosca, «Era popolarissimo se la popolarità consiste nell’essere facilmente accessibile a persone di ogni classe, di ogni ceto, di ogni moralità. La sua casa era indistintamente aperta ai galantuomini e ai bricconi. Egli accoglieva tutti, prometteva a tutti, stringeva a tutti la mano, chiacchierava infaticabilmente con tutti; a tutti leggeva i suoi versi, narrava i successi oratori riportati alla Camera e, con abili allusioni, faceva capire quante e quali aderenze potentissime avesse»[5]. Per lo storico Salvatore Lupo però, non basta questa “tenera” definizione, in quanto Palizzolo era protettore di diverse cosche mafiose, nonché manutengolo di briganti. Su tali relazioni, l’avvocato di parte civile Giuseppe Marchesano, nell’arringa finale del processo di Bologna -che durò quattro giorni e produsse un resoconto stenografico[6] di quasi settecento pagine– disse: «Chi si circonda di tali uomini lo fa per avvalersi di queste sue relazioni. Ordinariamente se ne avvarrà alle elezioni, ma quando si troverà in un caso più grave, quando la sua vita civile sarà in pericolo, e quando sarà necessario, perché questa vita civile non cessi, di sopprimere l’ostacolo che la minaccia, per l’uomo che ha tenuto intorno a sé per anni tutta questa gente, non è egli naturale, ineluttabile, che di essa si serva?».

schermata-2018-10-28-alle-09-36-03La fase delle indagini e dell’istruttoria a Palermo mostra lo spaccato della Sicilia dell’epoca, dilaniata da depistaggi, omertà e collusioni talmente evidenti che finirono per indignare l’Italia. Ma il blocco politico mafioso resse l’urto, anzi accrebbe notevolmente la sua forza. Quando Fontana (uno dei presunti killer) decise di costituirsi, racconta Ciconte[7] che il principe di Mirto, suo protettore, «(…) lo fece accompagnare dal suo avvocato personale; fece di più: il latitante comodamente seduto nella carrozza con lo stemma di famiglia dei principi di Mirto fu portato nella casa del questore perché il questore, e non solo lui, sapesse da che parte stava il principe».

Durante il processo venne fuori un perverso orgoglio siciliano, teso a difendere l’indifendibile. Racconta ancora Lupo (op. cit. nelle note), che Ignazio Florio Jr., ricchissimo erede a capo della Società di Navigazione Italiana, sentito nella veste di testimone durante il processo di Bologna, così si espresse: «La maffia? Non l’ho mai sentita nominare», per poi scattar d’ira alle domande del Pubblico Ministero: «È incredibile come si calunnia la Sicilia! La maffia nelle elezioni! Mai! Mai!».Mai!».

L’argomento regionalista esplose dopo la condanna di Bologna, vista come un oltraggio ed un attacco del Nord contro la terra dei Vespri. Si formò persino il comitato Pro-Sicilia, a difesa di Palizzolo e dell’onore della Regione. Un clima quasi secessionista, che ebbe la sua rilevanza nel contesto in cui dovette operare la Corte di Cassazione e la successiva Corte di rinvio, quella di Firenze, che finì per assolvere gli imputati.

Palizzolo tornò a Palermo da trionfatore, come il Giusto della situazione. «Venne poi lo atteso trionfo di Palermo, Palizzolo, gettato il bastoncello dello artritico, s’indugio a Napoli, al Grand Hotel de Londres ove il “Pro Sicilia” venne a rendergli omaggio. Salito poi sopra un piroscafo appositamente noleggiato, fece a Palermo ingresso trionfale, degno della città madre del “Pro Sicilia”, a cui, se poteva rinfacciare di aver lesinato le sottoscrizioni in denaro, non potè certo rimproverare di aver risparmiato le grida»[8]. Così l’amaro racconto del figlio Leopoldo, mentre Mosca, racconta Lupo, «sentenziò che l’apoteosi di Palizzolo “offendeva il senso morale”: “Certo che contro l’imputato degli assassini Miceli e Notarbartolo poco o nulla si poté provare, ma l’uomo apparve nella sua luce peggiore, se non delinquente almeno protettore di delinquenti e sospetto persino di relazioni coi briganti”»[9].

Intrecci tra politica, banche e mafie che ritorneranno più volte nella storia d’Italia, come nei casi Sindona e Calvi. Così come non ci hanno mai del tutto abbandonato i crediti facili ed i conflitti d’interesse nell’erogazione degli stessi, che portarono al fallimento della Banca Italiana di Sconto ad esempio, ma che sono anche tra le cause delle sofferenze bancarie dei nostri tempi.

Ma la vicenda ha anche un altro aspetto di attualità, che risiede nella figura dei due protagonisti. Notarbartolo era aristocratico, banchiere, burocrate, rigido e inflessibile nei suoi doveri, nella logica dei numeri. Il contrario di Palizzolo, amante del compromesso, uomo del popolo che non risparmiava mai strette di mano e sorrisi, pronto a tutto per i suoi fini elettorali e per difendere la sua cerchia di potere.

Usando i termini tanto in voga oggi, Notarbartolo farebbe sicuramente parte dell’establishment non eletto che mette i bastoni tra le ruote al rappresentante del popolo. Una retorica che ci sta invadendo, che opera per categoria di appartenenza, seguendo l’onda di un sentimento di rabbia espresso a mezzo internet che non risparmia nessuno e svilisce diverse professionalità, dai banchieri ai dirigenti ministeriali, dai politici stessi ai magistrati, dagli avvocati ai giornalisti. Tutti immersi in unico calderone, dove non conta più il curriculum o l’integrità individuale, cosa si è fatto nella vita, ma solo l’appartenenza allo schieramento dei “buoni” o dei “cattivi”.

In tutto questo, fare semplicemente il proprio dovere, come faceva Notarbartolo, come hanno fatto tanti anni dopo Giorgio Ambrosoli o Giovanni Falcone, come fanno la maggioranza delle persone che mandano avanti il Paese, passa in secondo piano. Ma se nel caso di omicidi eccellenti l’opinione pubblica vira dalla parte della vittima, lo stesso non accade quando l’attacco è solo politico-mediatico e non fisico. E l’isolamento di quest’ultime vittime resta tale, non meritevole di alcun conforto.

Ecco perché riscoprire le storie di chi ha perso la vita semplicemente per fare il proprio dovere, potrebbe forse aiutarci ad avere maggiore rispetto delle persone e del lavoro altrui, qualunque esso sia.

Twitter @frabruno88

[1] Asso P. (a cura di), “Storia del Banco di Sicilia”, Donzelli, 2017.

[2] Notarbartolo L., “Mio padre, Emanuele Notarbartolo”, Sollerio editore, 2018

[3] Piluso G., “La Sicilia come la Scozia? Il risanamento di Notarbartolo: riorganizzazione, deflazione e integrazione, 1876-1889”, in “Storia del Banco di Sicilia”, Parte prima – capitolo 4 

[4] Notarbartolo L., op. cit., p. 169

[5] Lupo S., “Tra banca e politica: il delitto Notarbartolo”, in “Meridiana”, 1990, p. 133

[6] http://www.storiamediterranea.it/portfolio/processo-contro-raffaele-palizzolo-e-c-i-arringa/ 

[7] Ciconte E., “Borbonici, patrioti e criminali”, Salerno editrice, 2016, p. 137

[8] Notarbartolo L., op. cit., p. 422

[9] Lupo S., op. cit., p. 148