Lavoro e tutele «creative»: efficace garanzia o più incertezza?

scritto da il 12 Dicembre 2018

All’analisi ha partecipato il dottor Marco Marzano, collaboratore dello Studio Ichino-Brugnatelli e Associati –

Con la sentenza n. 194 dello scorso 8 novembre 2018, la Consulta ha dato un deciso colpo di spugna alla normativa sul lavoro che, dal 2012 in poi, aveva allineato la disciplina italiana dei licenziamenti a quella dei principali partner europei. Si tratta di una delle novità fondamentali del Jobs Act, ossia la parametrazione dell’indennità risarcitoria per il licenziamento illegittimo all’anzianità di servizio.

Il rigido riconoscimento di due mensilità per ogni anno di servizio (nel minimo di 6 e nel massimo di 36), a detta della Corte, contrasterebbe con i principi costituzionali di «uguaglianza» e di «ragionevolezza»: da un lato risulterebbe preclusa la possibilità di una personalizzazione del danno (impedendo al giudice di considerare l’incidenza di altri fattori del caso concreto, quali il numero dei dipendenti occupati, le dimensioni del business e il comportamento delle parti); mentre, dall’altro, l’entità del risarcimento non dissuaderebbe in modo efficace il datore di lavoro dal licenziare senza una piena motivazione. Il risultato della pronuncia è che, in caso di licenziamento ingiustificato, il giudice potrà condannare il datore di lavoro a corrispondere al dipendente un’indennità variabile tra le 6 e le 36 mensilità.

Quali sono le conseguenze della pronuncia? La Consulta è intervenuta su una fra le normative che più toccano le relazioni economiche tra dipendenti e imprese.

Le tutele crescenti sono state realmente efficaci?

Non è scopo di questo contributo analizzare nel dettaglio l’efficacia del Jobs Act sotto l’aspetto delle assunzioni e delle trasformazioni da tempo determinato ad indeterminato (lo abbiamo già fatto in un precedente articolo su Econopoly). Intendiamo invece spiegare perché le motivazioni della Corte Costituzionale non ci convincono nel merito. E ci proponiamo di valutarne la fondatezza alla luce delle contingenze dell’Italia di oggi e della situazione del mercato del lavoro.

Vi è dell’evidenza empirica che vale la pena di presentare per corroborare le nostre tesi. Un recente lavoro di Paolo Sestito ed Eliana Viviano su dati veneti ha infatti provato a scomporre l’aumento delle posizioni a tempo indeterminato e delle trasformazioni da determinato a permanente distinguendo i due effetti: quello degli incentivi (tre anni di decontribuzione fino a 8060 euro per ogni contratto indeterminato o trasformazione) e quello delle tutele crescenti. La conclusione è che la nuova legislazione ha contribuito per un 8% del totale alla creazione di posizioni a tempo indeterminato nel periodo d’analisi (che va dagli ultimi mesi del 2014 a metà circa del 2015). L’aumento del tasso di trasformazione mensile è stato di circa 17 punti percentuali. Questi effetti, anche se inferiori in magnitudine a quelli degli incentivi, suggeriscono che le tutele crescenti hanno avuto un impatto positivo sul mercato del lavoro italiano.

Il regime di incertezza e le sue conseguenze

Cosa cambia ora? Anzitutto, per le imprese non è più possibile preventivare il costo del giudizio di impugnazione del licenziamento.

Il lavoratore assunto con contratto a tutele crescenti, se licenziato illegittimamente, può ambire a un’indennità compresa tra le 6 e le 36 mensilità. Ben più delle – massimo – 24 che spetterebbero secondo il precedente regime di cui all’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori dopo le modifiche della Legge Fornero.

Questo cambiamento porta con sé alcune conseguenze:

1. Diventa di fatto inefficace lo strumento;

2. L’aumento di contenziosi per l’impugnazione giudiziale dei licenziamenti (che si aggiungerà a quello sui contratti a termine dopo il decreto Dignità);

3. L’ampia discrezionalità di cui godrà il giudice nella scelta dell’ammontare dell’indennità da corrispondere;

4. L’impossibilità di stabilire un’indennità inferiore a quella che si sarebbe avuta applicando le «tutele crescenti».

Riguardo proprio al punto 2, è utile osservare l’andamento di ricorso ai giudici del lavoro nel periodo 2012-2016. Questi sono infatti diminuiti in modo significativo negli ultimi cinque anni in seguito alle riforme della legislazione in tema di licenziamenti, che la sentenza della Corte stravolge completamente.

Figura 1: trend dal 2012 al 2016 dei procedimenti che sono finiti dal giudice per tre categorie di licenziamenti: giustificato motivo, giusta causa e motivi disciplinari.

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Fonte: elaborazione su dati pubblicati dal Corriere della Sera.

 L’inadeguatezza dei criteri proposti

Oltre all’anzianità aziendale, secondo la Corte, l’indennità risarcitoria deve tener conto anche di altri fattori. Questi ultimi, riprendendo la formulazione della previgente normativa (la legge sui licenziamenti individuali del 1966 e lo Statuto dei Lavoratori), sono individuati nella dimensione dell’azienda, nel numero dei dipendenti occupati e nelle condizioni delle parti.

Tali indici, in realtà, sono solo parzialmente affidabili per risarcire adeguatamente il lavoratore licenziato. Il danno conseguente alla perdita del posto di lavoro è in gran parte funzione di tutt’altre variabili: da un lato, l’efficienza del mercato del lavoro e degli strumenti di assistenza al reddito e, dall’altro, l’età e la professionalità del lavoratore. In un mercato vivo dove le aziende sono incentivate ad assumere e dove le politiche di attivazione e riqualificazione della forza lavoro sono consistenti, il pregiudizio per la perdita del posto di lavoro è minimo. Così, purtroppo, non è in Italia e i criteri indicati dalla Consulta finiscono con l’addossare sui datori di lavoro il costo di variabili che, invece, sono di prerogativa dello Stato: non è proprio la Costituzione a ricordare alla Repubblica che, oltre a essere “fondata sul lavoro” (art. 1), ha altresì il compito di riconoscere “a tutti i cittadini il diritto al lavoro” e di promuovere “

Inoltre, al giorno d’oggi – tra gig economy, industria 4.0 e delocalizzazione – non è ragionevole parametrare la forza di un’impresa in base al numero di dipendenti occupati.

Quello che dovrebbe essere il «pensiero fisso»: l’occupazione

Quello che più stupisce è che la Corte Costituzionale aveva ben in mente la finalità e gli strumenti che la legge delega del Jobs Act aveva affidato al sistema delle «tutele crescenti»: rafforzare le opportunità d’ingresso nel mondo del lavoro per coloro che sono in cerca di occupazione, predeterminando e contenendo le conseguenze del licenziamento illegittimo (punto 6 della sentenza). Nonostante ciò, la Corte ha comunque concluso che il sistema delle «tutele crescenti» sia potenzialmente pregiudizievole dell’interesse del lavoratore in termini della stabilità del lavoro. Non neghiamo che la tutela del «posto fisso» rappresenti un valore nell’ordinamento, ma specialmente oggi e specialmente per i giovani trascurare il problema occupazionale è un comportamento autolesionistico.

Infatti, se da una parte la Consulta si preoccupa di rafforzare la stabilità degli insider (coloro che già beneficiano di contratti a tempo indeterminato), dall’altra trascura gli outsider, perlopiù giovani, per i quali il mito del «posto fisso» rischia di allontanarsi. Alcune imprese – non essendo in grado di preventivare il costo di un eventuale licenziamento e scoraggiate dall’ammontare dell’eventuale indennità – potrebbero preferire restare con un organico sottodimensionato piuttosto che rischiare di assumente un nuovo lavoratore: il risultato paradossale è che anche in situazioni di crescita economica, le imprese sono disincentivate ad assumere poiché vivono con l’aspettativa di possibili shock negativi in futuro. Questa considerazione, insieme agli effetti del decreto Dignità e in assenza di adeguate contromisure, rischia di far esplodere il numero (già altissimo) di contratti a termine di breve durata, esponendo le fasce più giovani e meno formate a un insostenibile turnover lavorativo.

Nel mentre, in Europa e in Italia

Non è un caso se in molti altri Paesi europei si è già optato per un regime di predeterminazione dei costi del licenziamento illegittimo: è così, ad esempio, nel Regno Unito, Germania, Spagna e Francia. È proprio da Oltralpe che arriva l’esperienza di maggiore interesse. Nel 2015, con una motivazione lucidissima, la corte costituzionale francese aveva ritenuto legittima l’applicazione del criterio dell’anzianità aziendale e, al tempo stesso, censurato quella delle dimensioni aziendali.

Questo semplice ragionamento si basa su una solida evidenza statistica: la durata media della disoccupazione aumenta in modo significativo con il passare dell’età. Questo significa che all’aumentare dell’età in cui avviene il licenziamento il soggetto avrà sempre maggiore difficoltà a trovare un nuovo lavoro ed uscire dalla “trappola” della disoccupazione. Soffermandosi proprio sulla Francia, l’Ocse quantifica che negli ultimi 3 anni mediamente nella coorte dei 25-54enni la durata media della disoccupazione si aggira intorno ai 15 mesi contro i 26 mesi medi della coorte degli ultra 55enni. Una differenza media di 10 mesi che con segmentazioni delle coorti sociali più estreme (esempio: 25-34enni vs over 55enni) raggiunge ampiezze molto maggiori. In Italia la situazione è ancora peggiore, non tanto nel gap, quanto nella durata, come emerge dalla figura 2.

Figura 2: incidenza % della disoccupazione per durata e coorte d’età in Italia nel 2017

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Fonte: elaborazione di Tortuga su dati Ocse.

Questa semplice evidenza per cui la durata della disoccupazione è tanto maggiore quanto maggiore è l’età a cui avviene il licenziamento è indubbiamente molto più importante per il lavoratore rispetto alle dimensioni di impresa o alla congiuntura economica in cui avviene il licenziamento. Proprio alla luce di ciò appare ancora più stridente il contrasto tra le motivazioni della Corte Costituzionale, che non prende in considerazione questo fatto fondamentale, e il criterio molto più pragmatico applicato dai colleghi francesi.

Una proposta pragmatica

Forte delle argomentazioni della corte francese, nell’ambito della Reforme du Travail, il governo Macron ha provveduto all’istituzionalizzazione di tabelle già stilate dai tribunali ma in precedenza utilizzate solo come riferimento.

Proprio l’idea delle tabelle francesi potrebbe essere adottata in Italia per bilanciare le esigenze di prevedibilità dei costi da parte delle aziende con le prescrizioni dettate dalla Consulta: un sistema analogo, dal resto, è già prassi nei tribunali in sede di liquidazione del danno non patrimoniale.

All’atto pratico, ferma la reintegra nelle fattispecie più gravi, le necessità occupazionali richiedono la reintroduzione del sistema a tutele crescenti con l’indennità risarcitoria progressiva secondo l’anzianità aziendale, con progressioni di due mensilità per ogni anno di lavoro (nei limiti di 6 e 36). Per recepire le indicazioni della Corte si potrebbe prevedere la possibilità, quale correttivo, di “personalizzare il danno”. Al giudice si potrebbe consentire di aggiungere o sottrarre mensilità valorizzando altri parametri e istituendo delle tabelle ad hoc, sul modello francese.

In questo senso riteniamo che l’ulteriore variabile idonea a esprimere concretamente il danno della perdita del posto possa essere l’età anagrafica del lavoratore: all’aumentare degli anni, difatti, cresce anche la difficoltà nel reperire una nuova occupazione. Si potrebbe ad esempio prevedere che, per lavoratori di oltre 50 anni, l’indennità risarcitoria possa essere aumentata di due mensilità in caso di rapporto di lavoro di durata inferiore a 5 anni di anzianità aziendale e di tre per rapporti più duraturi; viceversa, fino alla soglia dei 49 anni, il giudice potrà, secondo un equo contemperamento di tutte le circostanze del caso, aumentare l’indennità di una sola mensilità.

Eppure, anche l’applicazione del miglior sistema possibile non risulterebbe, oggi e in Italia, adeguata a tutelare il lavoratore illegittimamente licenziato dal danno della perdita del posto di lavoro: l’indennità risarcitoria, per quanto elevata, non è in grado di ridurre il periodo di disoccupazione che segue l’uscita dal posto di lavoro. È soprattutto per questo che si sente la necessità di un nuovo contratto a tutele crescenti, di nuovi sgravi contributivi, meglio se strutturali, di centri per l’impiego più efficaci: per tutelare davvero chi il proprio lavoro lo perde, evitando la sua uscita dal mercato del lavoro.

Twitter @Tortugaecon