Il paradosso della ineguaglianza: il mondo migliora davvero? Analisi e proposte

scritto da il 17 Dicembre 2018

Ineguaglianza.

Una parola che ultimamente esce sempre più spesso nelle analisi del successo politico dei movimenti cosiddetti “populisti”, siano essi le destre nazionaliste, siano i manifestanti dei Gilets Jaunes.

Ma come, ci dicono quelli che hanno inforcato gli occhiali rosa, il mondo va migliorando! Ci sono meno poveri! Si vive più a lungo! Anche l’alfabetizzazione ha fatto passi da gigante. Perché essere scontenti e preoccupati quando il pianeta non è mai stato in un momento migliore?

A questi interrogativi prova a rispondere Branko Milanovic nel suo articolo The Inequality Paradox: Rising Inequalities Nationally, Diminishing Inequality Worldwide, pubblicato sul blog dello Stigler Center della University of Chicago Booth School of Business.

Per chi non lo conoscesse, Milanovic è un economista. Ha lavorato per anni per la World Bank. È specializzato proprio negli studi su sviluppo ed ineguaglianza ed è autore del famoso libro Ingiustizia globale. Migrazioni, disuguaglianze e il futuro della classe media (LUISS University Press, Roma 2017). In questo libro Milanovic ha presentato il famoso grafico dell’elefante per mostrare la crescita dei ceti medi nei paesi in via di sviluppo, il declino della classe media occidentale e l’avanzata dei redditi del famoso 1% più ricco.

L’articolo inizia con la descrizione di un fatto oramai stilizzato per quanto noto: da metà anni ‘80 fino al 2013-15 dei 17 paesi dell’OCSE, 15 hanno visto un aumento della ineguaglianza sia dei redditi di “mercato”, sia dei redditi disponibili, cioè dopo l’intervento delle politiche di tassazione e trasferimenti.

Ovviamente queste ultime sono la spiegazione del perché in alcuni paesi, pur esposti alle stesse dinamiche economiche e quindi allo stesso aumento dell’ineguaglianza dei redditi di mercato, i redditi disponibili hanno avuto un aumento molto meno marcato. L’autore fa l’esempio di USA e Germania. Nel primo caso le politiche pubbliche hanno assecondato il processo, nel secondo invece lo hanno contrastato, appiattendo la curva dell’ineguaglianza del reddito disponibile.

Ma l’aumento della ineguaglianza dei redditi non si è limitata ai paesi avanzati. In Cina essa è aumentata anche più che negli USA, praticamente raddoppiando. La Cina veniva sia da un livello praticamente zero dei tempi di Mao sia contemporaneamente ha visto i redditi complessivi aumentare di 40 volte. In Russia invece l’aumento della ineguaglianza sotto il governo Eltsin ha coinciso con il crollo dei redditi portando quindi la popolazione ad accettare il regime oligarchico di Putin.

Ma il grande paradosso dell’ineguaglianza è che mentre a livello nazionale l’ineguaglianza dei redditi è aumentata quasi ovunque, a livello globale risulta diminuita. Grazie all’entrata sui mercati mondiali, tramite la globalizzazione, dei grandi e popolosi paesi asiatici (Cina, India, Indonesia, Vietnam, ecc), sempre più persone hanno visto i loro redditi avvicinarsi al dato mediano (mediano, NON medio) della distribuzione dei redditi. E, piano piano, stanno colmando il gap con quelli, in diminuzione, della classe media occidentale.

Uno degli effetti della globalizzazione è stato quindi di avere vincitori e vinti. Fra i primi troviamo i lavoratori dei paesi in via di sviluppo, fra i secondi quelli dei paesi avanzati che si trovano per la prima volta in duecento anni in pieno conflitto di interesse con i primi.

Le ricadute politiche sono ovvie: il “disoccupato di Voghera” non vota a Shanghai, mentre Xi Jinping difficilmente avrà, almeno per un decennio, una manifestazione di Gilets Jaunes cinesi.

Che cosa fare quindi, si chiede Milanovic?

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La risposta facile di invertire la globalizzazione appare intuitiva ma difficilmente risolutiva. La più grande economia del mondo, gli USA, negli anni ‘50 pesava per il 40% del PIL mondiale, oggi appena il 16% e difficilmente dazi e barriere potranno riportare indietro il calendario di 70 anni.

Finché i lavoratori dei paesi occidentali e quelli dei paesi in via di sviluppo avranno più o meno le stesse skill è ovvio che il lavoro passerà dai primi, che costano di più, ai secondi, che costano di meno. E la cosa succederà prima o poi pure alla Cina. Senza contare che c’è tutta l’Africa, con una popolazione lavorativa sottoutilizzata e disponibile.

Questo è il problema principale per Milanovic e due sono le soluzioni che propone. Una è quella di calibrare il sistema fiscale in modo da migliorare la redistribuzione dei redditi. Come? Con una tassazione maggiore su quelli più elevati per compensare maggiormente le ineguaglianze interne. La seconda è più strutturale: investire in educazione per migliorare le skill della forza lavoro, in modo che sia più competitiva e quindi in grado di competere per salari più alti.

E in Italia?

Come già scrivevo nel 2016 le riforme del lavoro degli ultimi 20 anni si sono concentrate più sulla flessibilità e sul suo costo invece che sulla qualificazione. E purtroppo gli effetti sul reddito degli italiani e sulla crescita del paese si sono tristemente visti. Invertire la direzione sarebbe quindi opportuno, invece che straparlare di sovranismo o incensare il made in Italy come soluzione taumaturgica.

Ma ciò comporterebbe andare a muovere un insieme di interessi e rapporti ormai cristallizzati nell’immobile società italiana.

Ci sarà mai una politica che ne avrà il coraggio?

Twitter @AleGuerani