Da Uber agli orari dei negozi, è vera lotta alla disoccupazione?

scritto da il 17 Luglio 2015

Nonostante i toni ottimisti del governo ad ogni segno “+” diffuso dall’Istat, l’istituto nazionale di statistica riporta che a maggio il tasso di disoccupazione era ancora del 12.4%. Ancora più grave, il tasso di inattività era del 55.9%. Ciò significa che, per diversi motivi, il 44% degli italiani tra i 15 e i 64 anni di età non lavora. Infine, tra i giovani sotto i 24 anni di età che desiderano lavorare, ben 41 su 100 non trovano un impiego.

Come è noto, la forte crisi che ha interessato il paese a partire dal 2007 ha solamente esacerbato un quadro – quello della situazione occupazionale italiana – che è preoccupante da decine d’anni. L’impulso ad interessarmene viene dal recente pronunciamento del Tribunale di Milano, che ha vietato il servizio UberPop su tutto il territorio nazionale, e dalla notizia che il disegno di legge recante disposizioni sugli orari degli esercizi commerciali, approvato all’unanimità dalla Camera, sarà presto all’esame del Senato.

All’articolo 1, tale provvedimento dispone che, in deroga al principio generale dell’abolizione della chiusura festiva obbligatoria sancito dalla legge cosiddetta Salva-Italia del 2012, gli esercizi commerciali debbano restare obbligatoriamente chiusi in almeno sei tra dodici festività espressamente indicate dal testo. Ancora più preoccupanti risultano, gli articoli 2 e 3, che danno possibilità ai Comuni di predisporre “accordi territoriali non vincolanti per la definizione degli orari e delle chiusure degli esercizi commerciali” e ai sindaci il potere di decidere gli orari di apertura dei negozi, per un massimo di tre mesi, nelle aree della movida notturna.

Si tratta di provvedimenti che avranno effetti nefasti sui livelli occupazionali in due settori, quelli del trasporto con conducente e del commercio al dettaglio, che danno le maggiori possibilità alla manodopera meno qualificata. Provvedimenti, quindi, che altro non sono se non i due più recenti atti ostili di una lunga guerra ai poveri che si combatte da decenni in Italia.

La sentenza Uber non fa altro che rafforzare gli ostacoli all’entrata nel settore, ostacoli che riducono fortemente l’occupazione a vantaggio di un numero limitato di privilegiati, i tassisti. Lunedì sera ero a cena a casa di un amico e collega a Boston. Una volta accomiatatomi, ho richiesto un’auto Uber. Quattro minuti dopo, ho visto sopraggiungere l’autista che mi avrebbe ricondotto in albergo: Arold, un ragazzo di circa vent’anni, studente, che grazie a Uber ha il tempo e le possibilità economiche di frequentare l’università. Perché il ragazzo di Boston sì, e quello di Cernusco no? Chiedetelo ai giudici.

Niente illustra la confusione che attanaglia tali giudici meglio delle ilari motivazioni che corredano la sentenza, tra cui il sospetto che gli utenti Uber, giovani e quindi meno scrupolosi, siano più facilmente preda di autisti imprevidenti. Cosa farebbero, i giovani italiani, se la dottoressa Marina Tavassi, presidente del collegio giudicante e con una quarantennale carriera in magistratura alla spalle, non vegliasse su di loro?

Gli amici e colleghi più inclini a cercare di comprendere le motivazioni prettamente giuridiche della sentenza Uber mi avvertono che il pronunciamento della corte non è poi così balzano, e che quindi spetta al legislatore prendere l’iniziativa per sdoganare Uber una volta per tutte. Fortunatamente, c’è già chi ci sta pensando.

La proposta di legge sul commercio è forse ancora più folle, se possibile. Io insegno in una business school. Molti tra i soggetti interessati a un programma di master o executive master lavorano durante i giorni feriali. Ne consegue che le lezioni dei nostri programmi part-time si tengono di sabato, domenica, e dalle 18 alle 21 durante la settimana. Gli incarichi di insegnamento vengono assegnati tra noi docenti a seconda delle preferenze personali. Per esempio, io preferisco insegnare la sera piuttosto che il fine settimana. Il collega nell’ufficio accanto, che è single e più giovane, ha preferenze opposte. Nel caso in cui avessimo preferenze simili, il nostro datore di lavoro potrebbe utilizzare incentivi di diverso tipo per far sì che l’assegnazione riscuotesse il gradimento di tutti.

Similmente all’insegnamento notturno, l’apertura degli esercizi commerciali di sera e nei festivi aumenta il valore aggiunto e l’occupazione nel settore, permettendo al contempo una gestione del tempo più flessibile alle famiglie dei consumatori, che non sono obbligate a correre per raggiungere il supermercato prima che chiuda.

L’obiezione secondo cui l’apertura nel festivo creerebbe problemi alle famiglie dei lavoratori è ovviamente ridicola. Ci sono milioni di giovani disoccupati. Si vuole forse sostenere che, volendo ampliare gli orari di apertura, un esercizio non troverebbe abbastanza persone disponibili a lavorare part-time in orari inusuali?

E ancora, cari legislatori: prima di impedire tout court l’apertura degli esercizi in una certa fascia oraria, non sarebbe forse il caso di chiedere ai signori lavoratori a quale prezzo (salario) sarebbero disposti a lavorare? Se i signori datori di lavoro fossero disponibili a corrispondere quel salario, chi ne avrebbe nocumento? I negozietti forse? Sono i voti dei loro proprietari che vi stanno a cuore?

Twitter @clementi_gl