La sharing economy, ora anche on demand, vale l’1% del Pil ed è qui per restare

scritto da il 23 Novembre 2015

Il segreto del successo è racchiuso in tre parole: fiducia, efficienza, valore. Ma il contributo al Pil, per il momento, non sembra ancora da effetto wow, anzi: resta tra lo 0,25 e l’1 per cento. Che in Italia sarebbe come dire fra i 4 e i 16 miliardi di euro, grosso modo. Ora, neanche troppo poco. In percentuale, però, un’inezia, soprattutto se rapportata al gran baccano che questa nuova economia produce, in termini di attenzione dei media.

La forchetta 0,25-1% è una stima degli esperti di Crédit Suisse, pubblicata in un corposo studio su quella che fino a qualche tempo avrei definito senza esitazioni solo sharing economy (che poi in effetti è il titolo del dossier, con l’aggiunta del sottotitolo “nuove opportunità, nuovi interrogativi”) ma che oggi tenderei a chiamare anche (me lo ha confermato di recente una giovane manager, artefice ed evangelista del genere) on demand economy; in questo caso si mettono al centro le persone più che le tecnologie e tradurrei in “economia delle prestazioni lavorative a richiesta”. Last but not least c’è anche chi parla di peer-to-peer asset lending platforms, sottolineando invece il ruolo delle piattaforme informatiche sulle quali prende vita questa nuova economia. Ma andiamo avanti.

Va sottolineato molto bene che trattasi di stima (quello 0,25-1%) ed è probabile che sia una sottostima. Perché un conto è misurare la commissione di Blablacar (20 milioni di iscritti in 19 Paesi) o della star del settore, Uber (51 miliardi di valore attribuito sulla base dei finanziamenti sin qui ricevuti), per un passaggio in auto. Un altro conto è calcolare il valore aggiunto di una piattaforma come freelancer.com, che incrocia domanda e offerta di lavoro sulla base di collaborazioni mirate per progetti.

Altro ancora è incasellare il guadagno di un host di Airbnb quando affitta il proprio appartamento o di uno chef fatto in casa di Gnammo. Ancor peggio se poi la sistemazione consiste in un rimborso spese per l’offerta di un divano letto o se l’accordo per un “lavoretto” è fra privati come avviene su Tabbid (la versione italiana di Task RabbitAskfortask, o dell’australiana AirTasker) o Helpling. In questo caso di certo il valore dello scambio non entra nel calcolo del Pil!

Settori in cui opera la on demand (sharing) economy rilevanti per la formazione del Pil

Settori in cui opera la on demand (sharing) economy rilevanti per la formazione del Pil (fonte: Crédit Suisse)

Eppure, sostengono Jonathan Horlacher e Patricia Feubli nel report, più le attività economiche del mondo on demand o sharing – in particolare nelle aree dei servizi (dai viaggi alle imprese di pulizie), dei trasporti, dell’ospitalità e del food (pensiamo alle millemila opportunità di fare cucina e guadagnare), meno dei servizi finanziari e assicurativi – guadagnano terreno, più urgente diventa aggiornare il metodo di calcolo della produzione di ricchezza di un Paese, che infatti nell’Unione Europea è stato già integrato (si legga l’articolo di Silvia Merler e Pia Hüttl sul blog del think tank Bruegel) inserendo il sommerso e perfino il fatturato di determinate attività criminose come il traffico di stupefacenti, la prostituzione e il contrabbando.

Molto rumore per nulla?
Sofismi, si potrebbe obiettare. Quel che conta, pare, è che nulla in teoria possa contrastare la forza innovatrice della on demand economy. Forse lo tsunami che ha distrutto Fukushima la può pallidamente ricordare? Forse il Big One sempre atteso e per fortuna ancora mai verificato in California renderebbe meglio l’idea? Forse, se solo i numeri lo confermassero. Ma non è ancora così. Forse, lo sarà.

Prendiamo a esempio modelli di business come car sharing (Zipcar, car2go, Enjoy), ride-sharing (Blablacar) o noleggio (Uber ovunque, Lyft solo negli Stati Uniti, Didi Kuaidi in Cina, Ola in India). Indubitabilmente portano clienti dal tradizionale rent-a-car verso le piattaforme della on demand economy. Eppure oggi, si legge nel report di Crédit Suisse, la forza del car sharing nel complesso è soltanto dell’1% del mercato auto. Secondo Avis Budget la stima è di un giro da 10 miliardi di dollari: vuol dire un quarto del mercato dei taxi, un quinto del mercato del noleggio. Ehi, ma a leggere i giornali sembrava che per il mondo precedente la fine fosse già una pagina scritta! Invece no, potremmo essere appena all’inizio.

Secondo l’Università di Berkeley ogni auto in condivisione sostituisce da 9 a 13 veicoli di proprietà. Tuttavia Crédit Suisse stima che le crescita delle vendite di nuove automobili possa subire un freno pari alla miseria di 70 punti base, lo 0,7 per cento. Non una catastrofe quindi, quanto nuove opportunità sul mercato, che dovrebbero esprimere le proprie potenzialità in tempi un po’ più lunghi di quanto abbia fatto presagire sin qui  la narrazione sul tema.

Quanto al settore dell’ospitalità, la on demand economy avrebbe pesato per il 9% del mercato degli hotel, nel 2014. Con HomeAway e Airbnb a contare per il 50% del totale. Secondo Crédit Suisse, poi, Airbnb – per quanto gratificata da una crescita esponenziale – offrirebbe soltanto l’1% delle camere di albergo su scala globale, anche se si prevede che possa salire al 5 per cento. Numeri – ripeto – che non dovrebbero terrorizzare i dinosauri dell’economia tradizionale, se paragonati alle sensazioni e ai titoli sull’argomento, ma anche all’offerta potenziale, di cui avevo parlato in un post su Info Data Blog meno di un anno fa.

Da The Sharing Economy, new opportunities, Crédit Suisse

Dal report di Crédit Suisse “The Sharing Economy – new opportunities, new questions”

Il fatto è che si è capito che Airbnb e HomeAway tendono ad attrarre viaggiatori diversi, che scelgono permanenze più lunghe, mentre le catene alberghiere ospitano più facilmente una clientela business che opta per le permanenze brevi. Insomma i clienti della on demand economy non si muoverebbero da casa e non andrebbero in albergo se non ci fosse Airbnb. Ergo, c’è da credere che siamo al cospetto di nuove opportunità (con una creazione di valore ancora limitata, a dispetto degli investimenti), non di un mero mercato di sostituzione. Sapete che c’è? Mi ero forse sbagliato, almeno in parte, attribuendo a questa economia una pericolosità persino eccessiva.

Comunque, come ha scritto il Financial Times lo scorso 29 giugno, i big della hôtellerie mondiale, per non sapere né leggere né scrivere, hanno iniziato a investire nei rivali dell’home-sharing, riconoscendo finalmente che rappresentano un’insidia concreta. Sembra che il tempo sia ancora dalla loro parte: secondo gli esperti della banca elvetica, che con questo report parla ovviamente agli investitori, “la sharing economy impatterà in maniera limitata sugli incumbent (società e gruppi ex monopolisti e oligopolisti che occupano ancora una posizione dominante, ndr) almeno per i prossimi cinque anni”. Le ricadute saranno più sensibili sui costruttori di automobili; al contrario, e queste sono good news, già oggi cominciano ad avere effetti tutt’altro che negativi per un’industria che ha subìto profondamente l’avvento di internet, ovvero quella discografica.

Dal report di Crédit Suisse "The Sharing economy - new opportunities, new questions"

Da “The Sharing Economy – new opportunities, new questions”

Una nuova dimensione del lavoro e della legalità
Quindi? Tutto è bene quel che finisce bene? No, non tutto. Ricordate che cosa significa on demand? A richiesta. Dove la cosa richiesta è una prestazione lavorativa. Già, perché il castello stia in piedi servono le persone. E che ruolo hanno le persone in questa nuova forma di economia? Ne ho già parlato qui e qui, per chi volesse approfondire la questione.

Nel suo report Crédit Suisse interpella Robert Kuttner, responsabile economico di “The New Republic”, editorialista di “Business Week” e giornalista investigativo del “Washington Post”. Il quale sottolinea che certamente siamo di fronte a un modello di business molto efficiente, estremamente conveniente per il cliente, ma anche devastante per il mercato del lavoro: i collaboratori, quando non sono consulenti high-skilled e strapagati, non hanno più alcuna reale protezione. Detto brutalmente: salari dignitosi (lasciate stare la paga oraria, il punto è quanto si lavora e con quale continuità) e tutele sociali rischiano di diventare un lontano ricordo.

Secondo Crédit Suisse, non la Cgil, in sintesi:

  • La sharing economy pone una serie di interrogativi: mentre i benefici per gli utenti sono enormi, si sa ancora poco sull’impatto che avrà sulla crescita e le implicazioni di lungo termine sul mercato del lavoro.

  • Ciò che rende la sharing economy così attraente sono i costi bassi, l’efficienza, la comodità, la mancanza di intermediari e la maggiore flessibilità. Ma tutto questo può anche significare salari più bassi e minori protezioni.

  • La sharing economy è un concetto che non è stato ancora completamente analizzato dal punto di vista delle norme legali e comportamentali da applicare. È un territorio inesplorato.

Su quest’ultimo aspetto va detto che in tutto il mondo il legislatore sta sbattendo molto forte contro la parete verticale della montagna, ovvero la necessità di creare un level playing field, un campo di gioco con regole uguali per tutti dove farsi beatamente concorrenza. Per adesso si cerca di reinterpretare le leggi in vigore. È il caso dei dibattimenti nelle numerose cause contro Uber per stabilire se i driver siano liberi professionisti o lavoratori dipendenti (in quest’ultimo caso Uber sarebbe costretta a chiudere, molto probabilmente).

In Italia (che novità) non è ancora successo nulla di concreto, nonostante nella primavera del 2014 il presidente del Consiglio avesse dichiarato che se ne sarebbe occupato di lì a una settimana. Se ne parla sottotraccia, si lavora a un testo che dovrebbe andare in Legge di Stabilità e che riguarderebbe solo il mondo del trasporto privato; l’Autorità di regolazione dei trasporti, da parte sua, ha chiesto di procedere a una regolamentazione del settore, normato da una legge del 1992, ma, di fatto, siamo in stand by.

Intanto le agenzie del Fisco provano a ripensare il modo di guardare a questa nuova forma di economia. Secondo me l’Australia, che ha preso rapidamente le sue contromisure per limitare le sacche di illegalità ed elusione, su quest’ultimo aspetto è il Paese più avanzato. Il Sole 24 Ore ne ha parlato qui. Qual è, invece, la proposta degli esperti della banca svizzera riguardo all’inadeguatezza delle attuali regolamentazioni e strutture legali – messe in profonda crisi dalla rapida diffusione della on demand economy grazie alla potenza delle nuove piattaforme informatiche? Guardare a Nord e seguire il modello dell’Estonia, ovvero creare una identità digitale per ogni cittadino. Vedremo. Intanto nel report di Crédit Suisse salta all’occhio questa citazione del responsabile del Digital Private Banking:

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Ebbene, la sfida più grande è anche la più rischiosa: la nuova economia nata dall’utopia della condivisione e finita, nelle sue declinazioni più evolute, tra le braccia del mercato potrebbe rivelarsi un cavallo di Troia, mettendo in crisi definitiva il concetto stesso di proprietà su cui è costruito il mondo (per come lo conosciamo). Ecco allora dove torme di avvocati strapagati saranno chiamati a dare il meglio di sé negli anni a venire. Per evitare che il potenziale disruptive faccia il suo corso (ma non è ancora detto che questo sia un male).

Twitter @albe_