No, non esistono pranzi gratis e l’helicopter Keynes non è la gallina dalle uova d’oro

scritto da il 27 Maggio 2016

Pubblichiamo un post di Andrea Garufi, quadro direttivo bancario appassionato di macroeconomia. Collabora al blog Piano Inclinato con una sua rubrica di storia del pensiero economico

Frances Coppola ha di recente scritto un pezzo, ripreso da Econopoly, che partendo da una frase di Keynes su moneta e crescita arriva a una critica delle odierne politiche monetarie non convenzionali. L’intento principale dell’articolo è di sostenere che la capacità di spesa degli operatori economici, nonché la distribuzione della ricchezza fra i soggetti, influenzano la propensione al consumo e quindi possono, in determinate circostanze di stagnazione come quelle attuali, deprimere gli effetti di politiche espansive come il TLTRO e il QE. Sarebbe meglio, conclude, monetizzare il debito tramite l’helicopter money.

Ma per arrivarci, Coppola fa una digressione in premessa, avanzando una audace interpretazione di Keynes attraverso l’uso della teoria quantitativa della moneta (peraltro nella sua versione intermedia fra Fisher [1911] e la versione della scuola di Cambridge). Anzi, sostiene che Keynes utilizzasse proprio questa spiegazione. Peccato che questa versione coppoliana di Keynes non renda merito all’economista di Cambridge. Da nessuna parte trovo citata la teoria keynesiana per eccellenza: la preferenza per la liquidità.

Su Piano Inclinato ho iniziato da tempo a parlare di Keynes, qui ne darò accenno per sommi capi. A differenza di Marshall, suo maestro e mentore, e dei predecessori quantitativi, Keynes non riteneva che il processo di aggiustamento fra quantità di moneta, prezzi e reddito (implicito nella identità quantitativa) passasse attraverso una variazione immediata dei prezzi. Per Keynes i prezzi non erano perfettamente flessibili, vi giocavano contro forze legate alla imperfetta flessibilità dei salari e la psicologia degli operatori economici (gli economisti neoclassici ne avrebbero postulato successivamente la rigidità nel breve periodo). I prezzi, almeno nel breve periodo, potevano essere considerati fissi, e le variazioni accadevano semmai nelle quantità: nel brevissimo periodo nelle quantità di scorte, mentre nel breve termine nelle quantità di output. In ogni caso l’aggiustamento avveniva sul reddito e non sui prezzi. Quindi variazioni di quantità nominali avevano effetti su variabili reali.

Ed è qui che interviene la sua teoria della preferenza per la liquidità. Keynes infatti riteneva che la domanda di moneta non dipendesse prevalentemente dal reddito, bensì dal tasso di interesse (o meglio dalla differenza fra il tasso corrente e quello atteso, ma dato che nel breve periodo le attese sono date e non si modificano, allora queste attese sono considerate alla stregua di una costante). Già questo appunto rende Keynes alieno alla teoria quantitativa, e alla sua interpretazione marshalliana, e un po’ più affine alle idee di Wicksell.

Al diminuire del tasso di interesse, cosa normale in fase di espansione monetaria, tuttavia corrispondeva per Keynes una forza che lavorava in senso opposto, appunto la preferenza per la liquidità: più il tasso si riduceva al livello minimo critico accettato dagli operatori per detenere asset finanziari, più la preferenza per la liquidità diventava assoluta. In altri termini la gente era disposta a detenere illimitate quantità di moneta “inoperosa”, impedendo il ridursi dei tassi. Questa impossibilità di ridurre i tassi sotto tale soglia rendeva difficile far partire il volano degli investimenti privati, bloccando così l’espansione del reddito nazionale. Questo spiega come mai Keynes fosse scettico sulla politica monetaria come mezzo esclusivo di politica economica, e invece rimarcasse moltissimo la spesa pubblica in deficit spending quale medicina di una economia malata. Ecco il vero senso della sua frase citata da Coppola.

Nessuna teoria quantitativa della moneta, insomma.

Per il resto, l’articolo di Coppola è condivisibile, e dice cose che avevo già scritto in risposta a The Economist sulle politiche non convenzionali e l’effetto ricchezza. Tuttavia Coppola non dice nulla sulla possibilità/opportunità di fare ancora monetizzazione del debito: lancia il sasso ma nasconde la mano. Decenni di politiche fiscali in deficit hanno dimostrato che scavare buche per riempirle non è automaticamente una ricetta buona. Serve spesa efficace e efficiente, che crei le condizioni per una crescita sostenibile tale che ripaghi il servizio del debito, altrimenti il debito pubblico esplode e sfugge di mano.

È possibile fare oggi una review del genere? Qui entriamo in un campo minato perché si scontrano non più numeri e modelli economici concreti, bensì ideologie e convenienze politiche. C’è chi crede che la spesa pubblica sia soprattutto un mezzo di crescita, chi invece vi vede la contropartita di un vantaggio clientelistico-elettorale che non crea le condizioni per una crescita sostenibile a vantaggio della collettività. Se si insiste tanto sulla necessità di una spending review è proprio per l’opportunità di rendere la spesa già esistente efficiente e efficace e liberare spazio per ulteriori margini di manovra, senza fare necessariamente ulteriore debito, e sempre che il livello attuale del debito non sia già insostenibile.

Anche questo argomento è quantomeno urticante per le stesse ragioni di scontro ideologico-politico: da un lato chi vitupera l’euro e la sua architettura di stati-nazione senza moneta propria, dall’altra chi vi vede un passaggio impegnativo, magari doloroso, ma necessario per arrivare ad una integrazione europea. E nuovamente il dibattito sfugge di mano.

Forse il mio punto di vista è semplicistico, ma non vedo enormi differenze fra le ricette che si possono suggerire ad un “paese monetariamente sovrano” ed uno non: vale erga omnes l’equazione di Fisher, che definisce la variazione del rapporto debito/PIL come somma dell’avanzo primario e della differenza fra tasso sul debito e Pil nominale, e definisce con semplicità le variabili da considerare, sia in un contesto di spesa pubblica “libera e (eventualmente) folle”, sia di austerity: in caso di saldo primario nullo o negativo, solo una crescita sostenibile e duratura (quindi trainata anche da una spesa pubblica efficace) può compensare la spesa per interessi; e in caso di austerity solo la credibilità delle istituzioni nel perseguire sia l’obiettivo di pareggio di bilancio e contenimento dei costi sia l’obiettivo di aumentare il Pil potenziale di medio periodo possono garantire che i tassi non aumentino a causa del maggior rischio percepito dagli investitori, dovuto al pernicioso mix di timori di aver raggiunto un limite alla sostenibilità del debito e di contrazione del Prodotto interno lordo per la restrizione sulla spesa pubblica.

Come si vede facilmente sono tutte considerazioni che richiamano anche la necessità di politiche supply side. Pertanto ritengo utile riconoscere che le vecchie ideologie economiche, che contrapponevano le politiche di domanda a quelle di offerta, appartengono al passato come gli hooligan che le brandiscono, spesso confusamente.

L’euro e l’Europa sono sicuramente costruzioni umane, non ottimali e perfettibili, altrettanto sicuramente stanno imponendo scelte difficili e spesso dolorose.
Ma ci stiamo tutti svegliando ad una realtà che dovrebbe essere lampante ma magari così tanto non lo è: non esistono pranzi gratis, e l’helicopter Keynes non è la gallina dalle uova d’oro.

Twitter @_beneathsurface