Lavoro, a cosa serve davvero la flessibilità (e che resta da fare allo Stato)

scritto da il 26 Dicembre 2016

In due recenti post su Econopoly Emiliano Brancaccio, Nadia Garbellini e Raffaele Giammetti da una parte, Thomas Manfredi dall’altra, hanno discusso dell’efficacia sull’occupazione della deregolamentazione della normativa sul lavoro e le relative maggiori flessibilità contrattuali, giungendo a conclusioni opposte fra loro: inefficace per i primi, efficace nel lungo termine per il secondo. A mio parere invece ci stiamo arrovellando a cercare la risposta giusta per una domanda sbagliata. In altre parole, davvero è un maggiore tasso di occupazione l’obiettivo della flessibilizzazione del lavoro? Seguitemi un attimo nei miei ragionamenti e capiremo assieme perché ho vari dubbi al riguardo.

Iniziamo da un assunto di base, cioè il desiderio da parte dell’imprenditore non tanto di massimizzare il rendimento del capitale ma soprattutto di riuscire a mantenerlo costante, cioè di limitare il più possibile l’alea, o il cosiddetto “rischio di impresa”.

L’impresa di successo è sempre più quella che riesce ad avere una struttura di costi il più possibile flessibile, cioè quella che riesce il più possibile ad adattarsi alle mutevoli condizioni del mercato mantenendo almeno costante la propria redditività anche nei momenti meno propizi.

Questo è il motivo dietro all’uso sempre più diffuso anche in imprese di piccole dimensioni di strumenti finanziari volti a limitare i rischi sui classici fattori della produzione: per coprirsi sulle oscillazioni dei prezzi delle risorse naturali si ricorre ai futures su commodity, per cautelarsi sui tassi relativi al Capitale di terzi agli IRS (interest rate swap). A questi si aggiungono strumenti più “classici”, ma mai così tanto impiegati, come l’esternalizzazione dei processi, oggi non solo quelli produttivi, la delocalizzazione e la creazione di sempre più complesse supply chain in una ricerca continua volta a “traslare” il rischio di impresa verso qualche altro soggetto e riuscire quindi a raggiungere una sempre più elevata flessibilità della propria struttura dei costi.

La traslazione del rischio, ovviamente, risponde alla forza del mercato in cui si opera, per cui viene subita dal soggetto “debole” della transazione, cioè quello che fornisce un fattore della produzione per cui la domanda è inferiore all’offerta per svariate ragioni, ed è indifferente la sua “natura”, può essere quindi sia un’altra impresa, una banca, un obbligazionista, un lavoratore autonomo o un lavoratore salariato.

La deregolamentazione dei contratti di lavoro non fa altro che rispondere a questa esigenza delle imprese e a trasformare anche il lavoratore salariato in una piccola impresa che fornisce su un mercato oramai globalizzato il suo prodotto, cioè il suo tempo/lavoro. L’obiettivo è quindi il contratto individuale ed i suoi competitor, grazie allo sviluppo tecnologico, sono in tutto il mondo, non solo nel paese dove vive.

Smettiamola quindi con le ipocrisie che si nascondono dietro alle parole come “miglior matching”, “opportunità”, “nel lungo termine…”, ecc., come correttamente invece ha scritto Thomas Manfredi non è affatto detto che maggiori flussi in uscita/entrata (cioè licenziamenti-assunzioni) aumentino, o diminuiscano, lo stock, cioè l’occupazione totale. Più che altro l’assunzione alla base di tali scelte politiche è che imprese maggiormente efficienti nella loro struttura di costi, riuscendo ad adattarsi meglio alle condizioni del mercato, possano meglio competere nel lungo termine e quindi con il loro successo incrementare lo stock occupazionale.

Ma essendo questo successo legato ad una moltitudine di altre variabili non è affatto garantito, come non è garantito che per forza un’impresa di successo debba aumentare il numero dei propri dipendenti perché non è comunque quella la sua missione e la tecnologia assieme alla globalizzazione stanno aumentando continuamente le combinazioni possibili dei vari fattori della produzione: posso produrre con dei robot in Italia o con dei salariati in Vietnam o una combinazione dei due, oppure creo una supply chain da 15 diversi paesi con l’assemblaggio finale in Polonia, il servizio clienti in Romania, gli uffici finanziari a Dublino, quelli amministrativi a Milano e la sede fiscale ad Amsterdam.

È una illusione molto simile a quella della “trickle-down economy” cioè che una minore tassazione dei ricchi avrebbe portato maggiore benessere anche ai meno benestanti.
Ma oggi non sono solo i capitali che si spostano ovunque in cerca di maggiori rendimenti e minori tassazioni, ma anche la domanda di lavoro.

L’unica decisione politica che è rimasta allo Stato nell’attuale sistema capitalistico globale è quindi relativa all’offerta di lavoro. La può rendere più competitiva o tenendone basso il costo, tramite il fisco e la deregolamentazione contrattuale e legislativa, o migliorandone la qualità, tramite l’istruzione pubblica, la formazione, l’accompagnamento al collocamento ed altri strumenti.

A seconda di quale delle due strade sarà preponderante offriremo sul mercato due tipi di lavoro, uno poco qualificato, a basso costo ma estremamente fungibile, e quindi facilmente esposto alla concorrenza dei paesi in via di sviluppo, o un lavoro qualificato, difficilmente sostituibile e ad alto valore aggiunto.

Decida il lettore dove si colloca il Jobs Act assieme a tutte le varie “riforme” sul lavoro prodotte dai vari governi italiani negli ultimi anni. A me pare evidente, come sono evidenti gli effetti sulla nostra economia e sul reddito degli italiani.

Twitter @AleGuerani