La risposta a Trump e Brexit deve venire dal libero commercio, che ci ha reso ricchi

scritto da il 27 Marzo 2017

Dopo tanto rumore, nel corso di queste ultime settimane, gli Stati Uniti di Donald Trump ed il Regno Unito di Theresa May hanno finalmente iniziato a scoprire le carte.

Il 5 Marzo, Peter Navarro, direttore del neonato National Trade Council, ha pubblicato sul Wall Street Journal un articolo in cui ha delineato una volta per tutte il programma commerciale dell’Amministrazione Trump. Oltre ad annunciare la revisione di molti trattati commerciali esistenti, si prevede un forte aumento delle esportazioni, la contemporanea riduzione delle importazioni e la conseguente riduzione del deficit commerciale americano.

Nonostante i molti errori del programma messi perfettamente in evidenza da Daniel Ikenson, direttore dell’ Herbert A. Stiefel Center for Trade Policy Studies del Cato Institute, think tank liberista, Navarro non poteva essere più esplicito: gli Stati Uniti non vogliono più avere a che fare con tutti quei paesi che vantano una bilancia commerciale attiva nei confronti di Washington (vedi grafico 1). “America First” è ormai l’obiettivo dichiarato.

Tabella 1: Stati Uniti: bilancia commerciale con i 15 principali partner commerciali. Dati 2016 – U.S. Department of Commerce, Census Bureau, Economic Indicators Division.

Classifica  Nazione Export Import Totale Bilancia*
1 Unione Europea 270,325 416,666 686,991 -146,340
2 Cina 115,775 462,813 578,588 -347,038
3 Canada 266,827 278,067 544,894 -11,240
4 Messico 230,959 294,151 525,110 -63,192
5 Giappone 63,264 132,202 195,466 -68,938
6 Germania 49,362 114,227 163,589 -64,865
7 Corea del Sud 42,266 69,932 112,198 -27,666
8 Regno Unito 55,396 54,326 109,722 +1,070
9 Francia 30,941 46,765 77,706 -15,824
10 India 21,689 45,998 67,687 -24,309
11 Taiwan 26,045 39,313 65,358 -13,268
12 Italia 16,754 45,210 61,964 -28,456
13 Svizzera 22,701 36,374 59,075 -13,673
14 Paesi Bassi 40,377 16,152 56,529 +24,225
15 Brasile 30,297 26,176 56,473 +4,121

* Segno meno significa deficit. Tutti i dati sono in miliardi.

Seguendo questa impostazione puramente mercantilista, il 18 Marzo, al termine del G20 delle finanze, il neo eletto segretario al Tesoro degli Stati Uniti, Steven Mnuchin, ha spiegato alla stampa che il nuovo governo americano, pur rimanendo aperto al commercio internazionale, preferisce un sistema in cui il libero scambio rimanga “bilanciato”.

Se da un lato i tempi del multilateralismo di Ronald Reagan sono ormai un ricordo lontano, dall’altro sarà estremamente interessante capire se questo tipo di retorica porterà all’introduzione di nuove tariffe, di nuovi dazi doganali e di ulteriori misure protezioniste. Oltre a deteriorare l’attuale sistema internazionale, queste politiche danneggeranno in primis i cittadini americani stessi.

“Buy American, Hire Americans”; per ora sembra essere davvero così. Nel frattempo, l’America si è già ritirata dalla Trans-Pacific Partnership (TPP), ha dovuto prendere atto dello stop alle trattative con l’Unione Europea per il Transatlanic Trade and Investment Partnership (TTIP) ed è pronta a rivedere lo storico North American Free Trade Agreement (NAFTA) con Canada e Messico.

A questo proposito è interessante ricordare come questo accordo fu voluto fortemente da Reagan negli anni ’80. Le negoziazioni furono poi avviate da George H.W. Bush nel 1991 e il trattato fu portato a termine dall’Amministrazione Clinton nel 1994. Più che ricordare i suoi ultimi predecessori repubblicani, Trump sembra ricordare i “Tories” britannici del 1840 che si opponevano all’abolizione delle Corn Laws.

Passando invece alla sponda europea dell’Atlantico, Theresa May è finalmente pronta ad invocare l’Articolo 50 del trattato di Lisbona. Come annunciato la settimana scorsa le procedure che porteranno al divorzio con l’Unione Europea inizieranno definitivamente mercoledì 29 Marzo.

Nonostante la positiva retorica globalista di alcuni esponenti dell’attuale maggioranza e di May stessa, il governo Britannico rischia presto si scontrarsi con la realtà dei fatti. “Global Britain” a parte, il Regno Unito non è né Singapore, né Hong Kong e da un punto di vista puramente commerciale l’idea di una “Hard Brexit” è semplicemente sinonimo di “costo di transazione”.

Di conseguenza, di fronte a questa situazione, come dovrebbero reagire gli altri 27 paesi dell’Unione Europea?

La risposta è, in parte, più facile di quanto molti ci vogliano far credere. La “nuova” Unione Europea a 27 deve evitare di contrattaccare le mosse protezioniste di Trump, continuare nel suo programma di apertura, pur non a qualunque costo, verso nuovi mercati, affrontare le trattative con il Regno Unito nel modo più amichevole possibile e ridurre le proprie barriere in quei settori ancora troppo protetti come, ad esempio, quello agricolo.

Fino ad ora, infatti, l’apertura verso nuovi mercati è stata l’àncora di salvataggio dell’Unione Europea ed ha garantito a decine di milioni di cittadini europei un posto di lavoro. Contrariamente a quanto ci viene spesso raccontato dai protezionisti nostrani di destra o di sinistra, il libero scambio ha reso l’intera Unione Europea (Italia compresa) più ricca e prospera. Secondo quanto viene riportato in un recente studio della Commissione Europea, pubblicato nel 2015, tra il 1995 ed il 2011, il numero di lavori europei legati alle esportazioni verso il resto del mondo è aumentato del 67%, superando quota 31 milioni. In altre parole, tra il 1995 ed il 2011, la politica commerciale comune dell’Unione ha portato alla creazione di 12,5 milioni di posti di lavoro. Un vero peccato che questi dati non vengano utilizzati più spesso nel dibattito pubblico.

Tabella 2: Un più libero commercio favorisce il lavoro italiano – Dati Commissioni Europea 2015.Per maggiori informazioni: http://ec.europa.eu/trade/policy/in-focus/trade-and-jobs/#italy

  • Le aziende italiane esportano per un valore di 219 miliardi di euro l’anno verso paesi extra UE.
  • Le esportazioni italiane verso i paesi extra UE sostengono oltre 2 milioni e 700 mila posti di lavoro in Italia.
  • Altri 402.000 italiani lavorano in settori connessi alle esportazioni di altri paesi UE verso paesi extra UE.
  • Questo significa che 1 lavoro su 8 in Italia dipende dalle esportazioni.
  • Le esportazioni italiane verso paesi extra UE sostengono oltre 367.000 posti di lavoro nel resto dell’UE.

Tutto questo però non ci deve sorprendere. Nonostante la necessità di avere una politica commerciale europea meno prona agli interessi nazionali e regionali (vedi caso Vallonia-CETA), nel corso di questi ultimi due decenni l’Unione Europea è riuscita, infatti, a ritagliarsi una posizione di vantaggio comparato in ambito commerciale. Se da un lato, gli Stati Uniti risultano essere il primo partner commerciale per circa venti nazioni; dall’altro l’Unione Europea lo è per ottanta paesi.

Oltre a tutto ciò è importante ricordare come ad oggi l’Unione Europea abbia già stipulato 44 accordi di libero scambio con 60 nazioni. Nell’attesa di avviare imminenti trattative con Australia e Nuova Zelanda e nella speranza di capire se l’amministrazione Trump tenterà di fare ripartire i negoziati per il TTIP, all’attuale vasta rete di accordi commerciali europei, presto si aggiungeranno anche quelli con Canada Singapore, Vietnam e Giappone. Se Theresa May parla metaforicamente di “Global Britain”, “Global Europe” è già una realtà.

Grafico 3: Attuali e futuri accordi commerciali dell’Unione Europea. Per maggiori informazioni: http://trade.ec.europa.eu/doclib/docs/2012/june/tradoc_149622.pdf

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Ecco perché è fondamentale che i rimanenti 27 Stati Membri e le istituzioni europee non si facciano intimidire dal protezionismo dell’amministrazione Trump e dalle future, logoranti, negoziazioni con il Regno Unito. Se si vuole “vincere” (e a noi Europei continentali è sempre piaciuto farlo) sarà indispensabile evitare polemiche inutili con Trump e co-operare soprattutto con chi la pensa in modo diverso.

Inoltre, con la Cina che scalpita per ottenere lo status ufficiale di “economia di mercato” ed avere più potere all’interno di organizzazioni internazionali come il Fondo Monetario e la Banca Mondiale, l’Unione Europea sembra essere, in questa fase storica, l’unica forza in grado di promuovere il concetto di libero scambio attraverso un processo multilaterale.

Inutile quindi ribadire quale sia il vero ed unico punto di partenza per l’Unione Europea post Brexit. Con le celebrazioni del 60° anniversario del Trattato di Roma ormai concluse, il primo obiettivo deve essere quello di rilanciare la politica commerciale comune ed eliminare tutte quelle imperfezioni che attualmente impediscono un più rapido completamento dei trattati di libero scambio. Se tutto ciò significherà modificare il Trattato di Lisbona, a maggior ragione non bisognerà avere paura.

Infatti, se c’è una lezione che il passato ci può insegnare è che , nel corso della storia, l’Europa è riuscita a trasformarsi in una delle aree più ricche del mondo, anche grazie al commercio internazionale. Dall’antica Grecia alle Repubbliche Marinare, dalla Pax Romana alla Lega Anseatica, dagli Imperi Europei del 1500, 1600 e 1700 al famoso trattato di Cobden-Chevalier tra Regno Unito e Francia del 1860, la sana indole commerciale degli europei ha da sempre costituito una delle forze principali per lo sviluppo economico del “Vecchio Continente”.

Nonostante Trump, Brexit, Le Pen, Wilders, Salvini, Grillo e tutti gli altri falsi profeti del protezionismo nostrano, l’Unione Europea deve saper raccogliere la sfida attuale e rilanciare con forza le idee economiche classiche. Al contrario ricorrere ai protezionisti, copiando le loro mosse , non porterà che ad una drammatica riduzione degli standard di vita.

Concludendo possiamo affermare che la trappola del protezionismo non ha mai funzionato e come scriveva appassionatamente Ludwig von Mises in uno dei libri economici più importanti di tutto il 1900: “La filosofia protezionista è una filosofia di guerra” (Mises, L.v., 1949 – L’Azione Umana, Trattato di Economia; Capitolo XXIV).

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