L’università gratuita avrebbe un costo altissimo: la spinta a conquistarsi il futuro

scritto da il 14 Gennaio 2018

Sono un po’ amareggiato quando leggo sui giornali che in Italia qualcuno propone di eliminare le tasse universitarie e sono in disaccordo con un recente post apparso su Econopoly. Da persona che vive dentro l’Università pubblica italiana, dedicando insieme ai colleghi molto tempo ai nostri giovani e con l’orgoglio del ruolo del pubblico e dell’eccellenza, che anche l’Università pubblica stessa può raggiungere – le notizie di questi giorni sui Dipartimenti di eccellenza ne sono una testimonianza concreta – desidero condividere con la comunità attenta di Econopoly alcune riflessioni.

Da cittadino “mezzo inglese” ho vissuto parte della mia infanzia e poi parte della mia vita professionale e personale in Gran Bretagna e ho avuto modo di confrontare da vicino i modelli formativi Italiano e anglosassone. Non ho dubbi sul fatto che in termini di preparazione la scuola Italiana come l’Università siano da sempre migliori delle istituzioni anglosassoni: anche comparando i risultati raggiunti con i mezzi a disposizione. Stesso discorso vale per la ricerca in Italia, che produce risultati eccellenti con mezzi molto lontani da quelli di cui dispongono i nostri colleghi, che operano in altri Paesi.

C’è un punto sul quale gli anglosassoni ci superano. Gli anglosassoni hanno un modello formativo che dall’inizio del percorso di studi cerca di guidare il bambino prima alla scoperta e poi alla valorizzazione del proprio talento. Talento che può essere nelle discipline scolastiche tradizionali come la matematica, la chimica, la letteratura, oppure, in discipline scolastiche meno tradizionali come la musica, l’arte, il teatro, lo sport ecc. In Italia purtroppo si enfatizzano troppo le discipline “scolastiche tradizionali” senza riuscire a dare spazio alla scienza applicata, all’arte e/o allo sport e ciò determina una standardizzazione – purtroppo verso il basso – della preparazione dei nostri bambini e dei nostri giovani, non avendo né i mezzi e né i metodi per poter differenziare il talento che ognuno ha in quanto diverso dagli altri. In Italia alla valorizzazione della diversità si è sostituita una filiera education sempre più orientata alla standardizzazione delle competenze con, talvolta, una penalizzazione del talento medesimo.

Manca nel sistema education italiano la cultura alla competizione positiva ossia fondata sul merito. La mancanza di competizione crea giovani non motivati, non curiosi e soprattutto non consapevoli delle proprie attitudini, dei propri talenti, disorientati verso il mondo esterno e non consapevoli di ciò che vogliono. La libertà di scelta per un giovane è funzione diretta del livello di conoscenza che lo stesso ha: la mancanza di conoscenza non riduce le scelte, ma ne aumenta la percentuale di errore con il risultato che i nostri giovani scelgono percorsi di studio e/o prospettive di lavoro che nel tempo si possono dimostrare lontane dalle loro competenze e/o dalle loro reali aspirazioni/attitudini. Il mercato del lavoro italiano del resto, a differenza di quanto accade in UK, non ha la flessibilità e la dinamicità necessarie per compensare l’inefficienza creata da scelte errate.

Il costo della scelta – anche sbagliata – e dell’orientamento dei giovani ricade nel sistema Italia sulle famiglie con un’ulteriore distinzione sociale tra chi può far fronte alle mancanze del sistema education e chi non può. A titolo di esempio si pensi alle attività sportive, musicali e artistiche, il cui costo è a carico delle singole famiglie come a carico delle famiglie è il supporto all’attività di studio dei figli, laddove questi incontrino delle difficoltà di apprendimento di talune discipline.

Cosa c’entra il tema delle tasse universitarie in questo contesto? C’entra. Fino a pochi anni fa ho insegnato con dei contratti gratuiti in una Università toscana e ho svolto lezioni in aule senza riscaldamento, senza banchi e perfino con infiltrazioni d’acqua dai muri esterni. Arrivando da Milano e abituato alle aule e agli spazi che la mia Università pubblica mette a disposizione dei nostri studenti manifestavo stupore nel vedere dei giovani costretti a studiare in luoghi e spazi sicuramente non idonei, convinto che l’estetica e la funzionalità siano essenziali per il successo di qualsiasi attività e impegno. Ciò che più mi colpiva in quei giovani, molti dei quali fuori sede, era la rassegnazione. Nessuno di loro si lamentava per non avere un banco dove appoggiarsi per scrivere, per non avere il riscaldamento acceso o per le infiltrazioni d’acqua. Non parliamo poi dell’assenza del WiFi e delle attrezzature.

Come mai non si lamentavano? Come mai erano rassegnati? Non è che non pagando per un servizio che si riceve o pagando delle cifre non alte alla fine ci si adatta e si prende con rassegnazione ciò che ci viene dato anche se il livello non è funzionale e/o in linea con le nostre aspettative? Non siamo tutti molto più esigenti quando paghiamo o comunque conquistiamo qualcosa con sacrificio?

Se ciò è vero non sarebbe preferibile aumentare il valore delle tasse universitarie, migliorando i servizi a favore di chi ne fruisce, sia migliorando le strutture e sia migliorando la ricerca sulla quale deve poggiare anche la qualità didattica?

Qualcuno potrebbe obiettare che così facendo si penalizzano i meno abbienti: ma ciò non è vero perché in parallelo si deve creare un sistema di meritocrazia che consenta a chi è bravo di accedere senza costi all’eccellenza proprio come accade nel mondo anglosassone. E ancora, se si crea un sistema di merito per l’accesso alle borse di studio non si va a favorire la costruzione e la diffusione di una cultura orientata alla competizione positiva, che può fungere anche da spinta e da orientamento dei nostri giovani?

E, infine, la competizione positiva fondata sul merito non può favorire una valorizzazione della diversità a beneficio dei singoli individui, del singolo talento di cui ognuno è portatore e titolare, piuttosto che incentivare un sistema orientato alla standardizzazione sempre più verso il basso, tanto è gratis?

Sono tutte domande alle quali provo ogni giorno a dare una risposta. Risposte che cerco quando parlo con i miei studenti e li osservo disorientati e lontani dalla fiducia che dovrebbero avere nelle proprie capacità. Risposte che cerco quando durante le sessioni di laurea guardo gli occhi dei genitori che con sacrificio hanno pagato gli anni di studio dei propri figli i quali andranno forse a guadagnare 1.400 euro al mese con una laurea in ingegneria meccanica come ebbi modo di scrivere tempo fa sempre su Econopoly.

Quando chiudo gli occhi e penso ai miei figli vorrei che la scuola, che oggi frequentano, li aiutasse prima di tutto a credere in loro stessi, a capire ciò in cui sono bravi e vorrei che li incoraggiasse a coltivare e a valorizzare il proprio talento e il proprio essere unici anche se ciò vuol dire incoraggiarli a coltivare una disciplina sportiva o un mestiere professionalizzante. Se poi non sono bravi in matematica, ma suonano uno strumento musicale o hanno una grandissima manualità artistica chi se ne frega: l’importante è far loro capire che nella vita bisogna sempre aspirare a essere i migliori – i numeri 1 – in qualsiasi cosa si decida di fare.

L’elogio deve essere fatto all’eccellenza nella diversità e non alla standardizzazione. La mia paura è che la gratuità di un servizio, alla fine, produca un costo a carico della società italiana molto maggiore non solo in termini economici, ma in termini di apertura e di spinta delle nuove generazioni al futuro: al loro futuro prima di tutto con il rischio di non riuscire a competere con i loro colleghi cinesi, indiani o comunque provenienti da Paesi nei quali lo studio ancora oggi rappresenta una conquista e un vero e concreto “ascensore sociale”.

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