Le startup in Italia hanno un problema: non sono le startup il problema

scritto da il 23 Gennaio 2018

Ci siamo abituati cosi tanto alla parola startup, che quasi non ci facciamo più caso. Usata nei film, impressa su giornali e riviste, la impiegano in politica e nelle università. Stampata sulle t-shirt e prestata negli spot pubblicitari, la parola startup è certamente tra i termini più utilizzati negli ultimi 10 anni. Ho condotto una ricerca sul termine “startup” per capire il valore di utilizzo nel mondo online.

Su Google Trends la parola “startup” mantiene un elevato ranking di ricerca durante tutto il 2017. Tra i maggiori paesi al mondo dove nel 2017 la parola “startup “è stata più ricercata c’è Singapore, seguito da Cina ed Estonia. In Italia siamo 46esimi dietro a Francia e Bulgaria e appena sopra Brasile, Spagna e Indonesia.

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Fonte: Google Trends 

I Millennials e le startup ormai guidano la rivoluzione tecnologica delle imprese a livello globale. Se in passato la reputazione di una società rappresentava il driver di attrattività più importante nella scelta dell’impiego lavorativo, oggi le nuove generazioni sono sempre più sedotte da aziende dove il rispetto delle opinioni e l’apertura a nuove idee permettono loro di sentirsi stimolati. Le startup descrivono a pieno questo tipo di cultura lavorativa e sono diventate dei veri a propri attrattori di talenti.

Fare startup è diventato un vero e proprio stile di vita. Lo sostiene Eric Ries, imprenditore e autore del best-seller del New York Times The Lean Startup, che è stato uno dei primi precursori a introdurre un nuovo concetto di startup, definendola un’istituzione umana progettata per creare un nuovo prodotto o servizio in condizioni di estrema incertezza.

Jack Ma, fondatore dell’azienda cinese Alibaba.com e considerato uno degli uomini più influenti del mondo, con un patrimonio finanziario stimato a dicembre 2017 di 48,3 miliardi di dollari, nelle sue recenti interviste, marca sempre quanto sia fondamentale e prezioso lavorare in piccole aziende, perché se in una grande azienda si imparano i processi e si entra a far parte di una grande organizzazione, in una startup si conosce cos’è la passione , si impara a sognare e soprattutto a fare impresa.

Nel ‘600, quando ancora le startup erano lontane di qualche secolo, Galileo Galilei affermava che dietro ogni problema c’è un’opportunità. Ma allora come mai, un paese come l’Italia, cui i problemi non mancano, non si creano opportunità per le startup?

Ha fatto discutere nelle ultime settimane la pubblicazione della relazione annuale sul piano del Governo sullo “startup act” in Italia, che scatta una fotografia dell’ecosistema dell’imprenditoria innovativa del nostro Paese. Le startup in Italia aumentano ma non crescono di dimensioni. Ciò che si discute in queste settimane nei vari salotti dell’innovazione è del perché le startup in Italia faticano a diventare grandi.

Secondo i principali attori italiani dell’ecosistema, il problema è da attribuire alla qualità delle nostre startup. Idee il più delle volte non più innovative e mancanza di capitale umano, sono le problematiche maggiormente riscontrate. Ma c’è anche un altro filone di studio, secondo cui il principale problema per le startup sono gli investimenti. In Italia non girano soldi sull’innovazione, o per meglio dire, non quanto nel resto d’Europa. Quasi 137 milioni di euro raccolti nel 2017 dai Venture Capital per favorire l’ecosistema italiano, grazie anche alla forte impennata che ha avuto l’equity crowdfunding, non sono comunque bastati a scalare la classifica europea sugli investimenti in startup. Anzi, gli investimenti sono diminuiti, visto che nel 2016 la raccolta raggiungeva quota 178 milioni.

L’Inghilterra della Brexit ha mosso 19 miliardi di euro negli ultimi 5 anni (dal 2012 al 2017), contro i 12 miliardi della Germania ed i 9 miliardi della Francia alle prese con il nuovo programma di Emmanuel Macron per trasformarla in una “startup nation”. In Italia i Venture Capital hanno mosso negli ultimi 5 anni appena 600 milioni di euro. Per raggiungere i numeri dell’Inghilterra, con i ritmi che abbiamo in l’Italia ci impiegheremmo 31 anni. Ma come mai siamo così lenti in Italia?

Governo ed ecosistema sembrano molto spesso non essere in linea nelle pianificazioni programmatiche. Non sono infatti bastati a sostenere la crescita dell’ecosistema italiano, né il comma 3 dell’art.57 della manovra correttiva 2017 del Governo che ha esteso la durata delle agevolazioni di cui godono le startup innovative da 48 a 60 mesi (5 anni ), né la decisione n. 4285 del 19 giugno 2017, pubblicata il 18 settembre 2017, che ha dato il via libera alla piena operatività delle modifiche apportate dalla legge di bilancio 2017 di innalzare la soglia degli incentivi fiscali al 30% per chi investe in startup innovative sia persone fisiche che giuridiche.

Anche l’inizio del nuovo anno non porta certo buone notizie in termini di competitività visto che il Governo ha deciso di escludere dalla Legge di Bilancio 2018 le detrazioni fiscali legate ai Pir (Piani Individuali Risparmio) nei confronti di chi investe in startup innovative iscritte al registro di Stato.

Burocrazia, pressione fiscale e bassi investimenti sono un grande limite per la crescita delle piccole imprese innovative italiane. Ma la cultura d’impresa rimane ancora un ostacolo insidioso, e non solo al Sud. Sajid Javid, Segretario di Stato UK per le imprese, l’innovazione e le competenze, afferma che per aumentare la produttività dell’economia inglese bisogna sostenere la crescita di nuove aziende. Il governo inglese non offre solo accesso ai finanziamenti, ma facilita l’avvio alle startup costruendo una forte cultura imprenditoriale.

Per migliorare la competitività non basta solo essere veloci in un mercato che avanza, ma soprattutto essere consapevoli del proprio percorso imprenditoriale. Mantenere obiettivi di crescita trimestrali per consolidare il lancio esponenziale di una startup non è semplice. Le aspettative del mercato sono dinamiche e mutano costantemente e l’Italia non è culturalmente pronta a correre.

L’imprenditorialità si sostiene con i talenti, aumentando i fondi a disposizione della ricerca e consentendo alle Università di dedicare ricercatori allo sviluppo e il sostegno delle startup. Alitalia è costata allo Stato 7 miliardi di euro negli ultimi quarant’anni. Con quei capitali avremmo potuto finanziare circa 500 mila assegni di dottorato.

Non è abbastanza neanche ricevere il sostegno di alcuni dei più grandi marchi tecnologici del mondo, tra cui Cisco, o la decisione di Apple di aprire il primo centro europeo di sviluppo di app a Napoli. Il Governo deve sostenere di più l’innovazione riducendo la pressione fiscale sulle nuove imprese. L’ecosistema dovrebbe fare certamente più squadra e diventare un interlocutore privilegiato con il Governo per la costruzione di una linea programmatica in grado di sostenere la crescita delle startup. Perché se vogliamo far crescere le startup, dobbiamo formare gli imprenditori e rendere le aziende più sostenibili, essere in grado di evolversi costantemente per soddisfare le esigenze della comunità e delle persone. Ricercare nuove soluzioni e nuovi stimoli per lo sviluppo. Perché se in Italia le startup hanno un problema, sia chiaro, non è certo colpa delle startup.

Twitter @lospaziodimauri