Lavoro, perché le riforme è meglio farle quando l’economia cresce

scritto da il 27 Marzo 2018

Dopo il 2008, i mercati del lavoro nell’area dell’euro hanno risposto in modo diverso alla recessione e alle successive riforme. Questo articolo, scritto con l’economista Tolga Aksoy e pubblicato su Voxeu.org, utilizza dati dei 19 paesi della zona Euro per dimostrare che le riforme del mercato del lavoro e dei beni hanno accelerato l’uscita dalla recessione, ma hanno anche accresciuto l’impatto degli shock recessivi sull’occupazione. Poiché questo secondo effetto si verifica prima, riforme del mercato del lavoro condotte durante fasi recessive rischiano di dissipare il sostegno pubblico alle riforme.

La crisi globale iniziata nel 2008 ha provocato una forte recessione e un aumento dei tassi di disoccupazione nell’area dell’euro. Tuttavia, le dimensioni del calo della produzione e dei posti di lavoro sono state molto diverse da paese a paese. L’impatto nell’Europa meridionale, in Irlanda e nelle Repubbliche baltiche è stato drammatico, mentre la maggior parte dei paesi dell’Europa centrale e settentrionale sono stati solo lievemente colpiti.

Questo perché la recessione è stata molto peggiore in alcuni paesi rispetto ad altri. L’Irlanda, la Spagna e in seguito la Grecia hanno subito un arresto improvviso nei flussi di capitale. La Grecia, l’Irlanda, il Portogallo, Cipro e, in misura minore, l’Italia hanno attraversato una crisi di fiducia nel debito pubblico e, in alcuni casi, di corse agli sportelli delle loro banche. Grecia, Portogallo, Spagna hanno attuato rigidi consolidamenti fiscali. Molti paesi dell’Europa meridionale, sotto la pressione dei mercati finanziari e delle istituzioni internazionali, hanno attuato cambiamenti normativi radicali del mercato del lavoro, del mercato dei beni e nel settore bancario (Manasse e Katsikas 2018).

In una nostra recente ricerca (Aksoy e Manasse 2018), abbiamo analizzato le diverse risposte dei mercati del lavoro europei alla recessione e anche l’impatto dell’ondata di riforme (ad esempio Cazes et al., 2011, Conway e Nicoletti 2006) messe in atto. Ci concentriamo su due aspetti:

– Resilienza: l’impatto degli shock recessivi sul cosiddetto gap della disoccupazione, la differenza tra il tasso di disoccupazione e quello “di equilibrio” (minore è l’impatto, maggiore è la resilienza)

– Persistenza: misura il tempo richiesto affinché la disoccupazione sia riassorbita e torni al livello di equilibrio

Quello che troviamo è che le riforme che liberalizzano il mercato del lavoro e dei beni tendono a ridurre la persistenza, ma al prezzo di ridurre la resilienza.

Resilienza e Persistenza
Nel lavoro stimiamo un modello alla Okun in cui la deviazione del tasso di disoccupazione dal livello di equilibrio, il cosiddetto unemployment gap, dipende dall’output gap, che rappresenta la deviazione del PIL dal livello potenziale. Consideriamo i 19 paesi dell’area dell’euro utilizzando i dati annuali dell’OCSE dal 1965 al 2014. A differenza degli studi precedenti (ad esempio Gordon 2011), introduciamo nel modello anche un elemento di dinamica (il livello della disoccupazione passata) che ci permette di stimare la velocità di aggiustamento del tasso di disoccupazione verso l’equilibrio di lungo periodo. Misuriamo dunque sia l’impatto di breve periodo dell’output sulla disoccupazione, indicato dal parametro “beta” (tanto maggiore questo parametro, tanto minore la resilienza); sia la dipendenza temporale della disoccupazione da quella passata (il parametro “alfa” che misura la persistenza: tanto più questo si avvicina all’unità, tanto più a lungo dura la disoccupazione).

La figura 1 illustra la relazione tra “resilienza” e “persistenza”. Ogni paese è rappresentato da un punto; le coordinate sono, sull’asse verticale, il coefficiente di impatto stimato beta (alto quanto la resilienza è bassa) e, sull’asse orizzontale, il coefficiente di persistenza alfa (alto quando la disoccupazione dura a lungo).

Figura 1. Trade-off tra resilienza (basso beta) e persistenza (alfa alto) per 19 paesi nell’area dell’euro, 1965-2014

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Fonte: Stime su dati OCSE.
 Nota: Beta rappresenta la stima puntuale del coefficiente dell’output gap sul divario di disoccupazione del paese corrispondente. Alfa rappresenta la stima puntuale del gap di disoccupazione ritardato sul gap di disoccupazione nel paese corrispondente.

La figura suggerisce la presenza di un trade-off: i mercati del lavoro che mostrano una maggiore resilienza della disoccupazione (beta basso) sono anche caratterizzatati da una maggiore persistenza (alto valore di alfa). L’Italia, il Portogallo e la Grecia appaiono nella regione in alto a destra, di alta resilienza e alta persistenza della disoccupazione. Cipro, Spagna, Lettonia, Slovacchia e Lituania si trovano nella regione in basso a sinistra di bassa resilienza e bassa persistenza.

L’Italia e Malta rappresentano i casi estremi della persistenza. Il tasso di disoccupazione richiede cinque anni e otto mesi in Italia e solo tre mesi a Malta per percorrere metà strada della distanza dal livello di equilibrio in seguito ad uno shock. Lussemburgo e Spagna sono agli estremi della dimensione della resilienza. Per il Lussemburgo, una riduzione dell’1% dell’output gap si riflette in una variazione dello 0,03% del divario di disoccupazione. In Spagna, al contrario, questa elasticità è pari a 0,47.

Il ruolo delle istituzioni del mercato del lavoro e dei beni
Possiamo ipotizzare che alta resilienza e alta persistenza della disoccupazione, come quelle osservate in Italia, esemplifichino un mercato del lavoro “rigido”, in cui i costi elevati di licenziamento e di assunzione (Bentolila e Bertola 1990) ed una rigida legislazione sulla protezione dell’occupazione rendono difficile alle imprese ridurre gli occupati nelle fasi di recessione, almeno nel breve periodo, ma poi contribuiscano anche a rallentare le assunzioni, aumentando la persistenza della disoccupazione nel lungo termine. Possiamo anche immaginare che, al contrario, la bassa resilienza e la bassa persistenza, esemplificati dal caso della Spagna, rappresentino mercati “flessibili” in cui avviene esattamente il contrario: le imprese licenziano subito ma poi tornano presto ad assumere.

Per verificare questa ipotesi, stimiamo un modello in cui i parametri di resilienza e persistenza possono variare nel tempo sulla base delle caratteristiche istituzionali (riforme strutturali) del mercato del lavoro e dei beni. Usiamo il noto indice OCSE sulla protezione dell’occupazione, l’indice di centralizzazione nella contrattazione salariale e l’indice di regolamentazione del mercato dei beni. Questi indici vanno da zero (il mercato meno regolamentato) a sei (il più regolamentato), v. OCSE 2015, Visser 2015, Conway e Nicoletti 2006.

I risultati della stima suggeriscono che minore concorrenza nel mercato dei beni e un sistema di contrattazione salariale più centralizzato sono associati a un minore impatto della produzione sulla disoccupazione, cioè a maggiore resilienza. Inoltre, un mercato dei beni con meno concorrenza ed un sistema di contrattazione più centralizzato sono associati a una disoccupazione più persistente. Infine, troviamo che una legislazione più restrittiva sulla protezione del lavoro è associata a una persistenza più elevata, ma non a significativi effetti di “protezione” contro gli shock di output.

Riforme strutturali e disoccupazione
C’è una domanda importante alla quale possiamo rispondere usando la nostra metodologia: le riforme strutturali introdotte frettolosamente dai paesi dell’Europa meridionale durante la crisi hanno fatto aumentare la disoccupazione?

La risposta, in breve, è: “sì, ma …”. Gli effetti negativi che misuriamo sono relativamente piccoli e poi rapidamente diventano positivi. Quello che facciamo è costruire uno scenario controfattuale in cui non ci sono riforme, “congelando” gli indicatori strutturali ai valori del 2007. E poi paragoniamo l’andamento della disoccupazione effettiva con quella che si sarebbe verificata in questo scenario senza riforme. La differenza tra disoccupazione effettiva e quella controfattuale misura l’effetto delle riforme sulla disoccupazione.

Il caso Grecia
Limiteremo qui la nostra discussione ai risultati per la Grecia, perché le riforme sono più evidenti e hanno avuto i maggiori effetti sulla disoccupazione (gli effetti negli altri paesi del Sud Europa sono qualitativamente simili ma più piccoli).

Il pannello di sinistra della figura 2 mostra gli indici di regolamentazione del mercato dei beni e della centralizzazione dei salari, che appaiono essere le caratteristiche più significative che hanno influenzato la risposta della disoccupazione. Dalla figura si vede come le riforme più radicali in Grecia abbiano riguardato soprattutto il mercato del lavoro, piuttosto che quello dei beni (Manasse 2015). Il pannello di destra mostra la differenza tra i divari di disoccupazione previsti (“con le riforme”) e controfattuali (“senza riforme”) per la Grecia. Le riforme attuate dal 2010 sono inizialmente associate a un aumento della differenza tra i divari di disoccupazione effettiva-controfattuale, che raggiunge 1,1 punti percentuali nel 2011.

Questo effetto deriva dal fatto che le riforme hanno ridotto la resilienza del mercato del lavoro agli shock, esattamente in un momento in cui l’economia stava vivendo una recessione drammatica. Tuttavia, il differenziale diventa negativo già a partire dal 2013, suggerendo che l’effetto positivo delle riforme ha poi prevalso, riducendo la persistenza della disoccupazione. Altri paesi dell’Europa del Sud hanno mostrato effetti significativi dalle riforme attuate tra il 2008 e il 2014, ma questi si sono piccoli e di natura temporanea.

Figura 2. Riforme e disoccupazione in Grecia, 2007-2013

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Fonte: Aksoy and Manasse (2018). 
Nota: il riquadro di sinistra mostra l’indice di riforma del mercato dei prodotti (PMR) dell’OCSE e l’indice della centralizzazione della contrattazione salariale in Grecia. Gli indici vanno da 0 (minima regolamentazione) a 6 (maggiore regolamentazione). Il pannello di destra mostra la differenza tra il divario di disoccupazione previsto e quello ottenuto quando gli indicatori CWB e PMR sono mantenuti costanti al valore del 2007.

Le riforme richiedono cautela
I nostri risultati suggeriscono che le riforme del mercato del lavoro e dei beni accelerano l’uscita dalla recessione e quindi producono benefici a medio termine. Ma scopriamo anche che le riforme tendono a rendere il mercato del lavoro meno resistente agli shock. Questo secondo effetto, sebbene piccolo, prevale inizialmente. Pertanto, si dovrebbe usare cautela nell’attuare le riforme del mercato del lavoro durante fasi di ampie recessioni e di aggiustamenti di bilancio, dal momento che le riforme, in particolare quelle del mercato del lavoro, possono inizialmente acuire la perdita di posti di lavoro e compromettere il sostegno alle riforme stesse.

Twitter @pmanasse

Riferimenti bibliografici
Aksoy, T and P Manasse (2018), “The Persistence-Resilience Trade-off in Unemployment: The Role of Labour and Product Market Institutions”, in P Manasse and D Katsikas (eds.) Economic Crisis and Structural Reforms in Southern Europe: Policy Lessons, Routledge.


Bentolila, S and G Bertola (1990), “Firing costs and labour demand: how bad is eurosclerosis?” The Review of Economic Studies 57(3): 381-402.

Cazes, S, C Heuer and S Verick (2011), Labour market policies in times of crisis, Palgrave Macmillan.

Conway, P and G Nicoletti (2006), “Product Market Regulation in the Non-manufacturing Sectors of OECD Countries”, OECD Economics Department working paper 419.

Gordon, R J (2011), “The Evolution of Okun’s Law and of Cyclical Productivity Fluctuations in the United States and in the EU-15”, Presentation at EES/IAB Workshop, Labour Market Institutions and the Macroeconomy, Nuremberg, June.

Manasse, P (2015), “What Went Wrong in Greece and How to Fix It”, VoxEU.org, 12 June.

Manasse, P and D Katsikas (2018), “Economic Crisis and structural Reforms in Southern Europe”, VoxEU.org, 1 February

OECD (2015), Employment Outlook, OECD.

Visser, J (2015), ICTWSS Database Version 5.0, Amsterdam Institute for Advanced Labour Studies AIAS.