Urge equilibrio tra “local” e “global”. Se no son dolori

scritto da il 15 Aprile 2018

Nel mondo, e in Italia, ci sono due tipi di elettori[i]: i “local” e i “global”.

Ciò che li differenzia non è il reddito, né l’accesso ai diritti, né la classe sociale. È la Weltanschauung, la visione del mondo. Hanno valori e stili di vita diversi.

I “local”, la maggioranza, hanno un livello educativo più basso e vivono radicati sul territorio: non amano allontanarsi da affetti, comunità e tradizione – mamma e squadra di calcio incluse.

Il “global” è in minoranza (anche se fa finta di non accorgersene) e ha un livello educativo più alto. Non ama le frontiere: ha viaggiato – e spesso vissuto – in più di un paese.

Negli ultimi trent’anni, i “local” sono regrediti economicamente e socialmente. Dimenticati dalla politica, hanno sofferto la globalizzazione. Esposti alla precarietà dalla competitività, vogliono sicurezza – sul lavoro e in strada. Detestano l’immigrazione, soprattutto se si traduce in concorrenza. Credono nello stato assistenziale e non intendono cedere sovranità nazionale. Li irrita il “politically correct”, che considerano imposizione (e strumento di potere) del “global”. Anzi, sono convinti sia necessario essere “politicamente scorretti” per affrontare e risolvere le sfide future. Se lasciato disatteso, il loro risentimento si traduce in nazionalismo, con nostalgie d’autoritarismo. La frangia più estrema è intransigente, antidemocratica e xenofoba.

Nello stesso periodo, il “global” – politicamente ben rappresentato – ha tratto beneficio dalla globalizzazione. È più ricco in diritti e denaro, considera sacrosanti i suoi privilegi. Gode – e abusa, spesso senza accorgersene – del suo status. Si riconosce nella democrazia liberale ma prescinde senza problemi dall’opinione dei più, e auspica la cessione della sovranità nazionale. Non osteggia l’immigrazione, anzi se ne serve (in tutte le sue declinazioni, dalla colf agli operai). La frangia più estrema appartiene all’élite liberale o alla sinistra progressista; è cosmopolita, ha proprietà all’estero e cade in contraddizioni radical-chic: è ambientalista ma prende un aereo al mese, si preoccupa della disuguaglianza mentre guida il SUV, ama la multiculturalità perché – più che pagarne i costi – ne beneficia.

I “local” hanno un’identità definita, che sentono minacciata. Si difendono cercando sicurezza e garanzie nel gruppo d’origine. Il “global” ha un’identità composita e non dimostra empatia verso i “local”, ne ignora paure e preoccupazioni.

I “local” non sopportano i privilegi del “global”, il quale – a loro avviso – parla bene e razzola male: è “fiscally conservative” ma elude le tasse – sempre in maniera lecita. È contrario allo stato assistenziale, ma cerca di ottenere più benefici previdenziali che può: è spesso un baby-pensionato[ii], e se vive all’estero esige la pensione dal paese d’origine. Insomma, impone rigore (agli altri) ma sfora (lui). In più, non si cura dell’impatto dei flussi migratori sulla vita dei “local” e difende i diritti delle minoranze etniche, anche se non si integrano.

Così, quando c’è Brexit o diventa presidente Trump, i “local” si identificano e applaudono. Il “global”, spiazzato, fatica a capire cosa sia successo.

I “local” e i “global” hanno progetti diversi.

Il “global” non concepisce alternative alla “società aperta”[iii]: vuole più commercio internazionale e più Europa. È convinto che i problemi si risolvano “con più” globalizzazione, e non “con meno” – immigrazione[iv] inclusa. Aborre burocrazia, debito pubblico, imprese improduttive controllate dalla politica, tasse e regole inutili. Si oppone alla protezione dei “posti di lavoro”: è convinto che i lavoratori – perso l’impiego – possano (e debbano) essere aiutati a riqualificarsi. Per i giovani, la ricetta è “studia e lavora”.

I “local” non disdegnano isolazionismo e assistenzialismo. Preferiscono un’economia domestica protetta dalla concorrenza internazionale, anche attraverso dazi e sussidi. Non amano “efficienza-e-produttività” a tutti i costi, come condizione di sopravvivenza. Esigono protezione dei “posti di lavoro” e regolamentazione dell’immigrazione. A deflazione salariale e moneta forte preferiscono inflazione e svalutazioni competitive. Per i giovani, la gestione clientelare della spesa e il debito pubblico non sono anatema.

Che fare?

Per evitare conflitti, bisogna ridisegnare la società. Va trovato un nuovo equilibrio tra “centralità della comunità” (priorità dei “local”) e “apertura di menti, frontiere e mercati” (priorità dei “global”). È necessario proporre un progetto – socialmente ed economicamente sostenibile – che soddisfi entrambi. Se no son dolori.

 

NOTE

[i] Si veda in proposito: “The Road to Somewhere: The Populist Revolt and the Future of Politics” (in Italiano: “La strada verso qualche parte: la rivolta populista e il futuro della politica”), David Goodhart , Hurst, 2017.

[ii] Le “baby pensioni” – introdotte nel 1973 dal governo Rumor con provvedimento votato da maggioranza e opposizione (art. 42, DPR 1092) – sono pensioni erogate dallo Stato italiano a impiegati pubblici che hanno: 1) smesso di lavorare ad un’età inferiore ai 40-50 anni; e 2) versato i contributi previdenziali per: a) 14 anni, 6 mesi e 1 giorno se donne sposate con figli; b) 20 anni se dipendenti statali; e c) 25 anni se dipendenti di enti locali.

[iii] Una società (teorizzata da Karl Popper) in cui convivono più minoranze culturali, dialoganti anche se diverse, che mantengono l’identità d’origine ma hanno l’obbligo di identificarsi nei valori della società ospitante e di rispettarne il quadro normativo.

[iv] Il “global” è convinto che: 1) la libera circolazione di beni e capitali faccia crescere il reddito pro-capite nei paesi d’origine e – riducendo le diseguaglianze fra paesi – limiti l’incentivo economico a migrare; 2) gli immigrati servano: lavorano, producono (130 miliardi di valore aggiunto, l’8,9 per cento del Pil nel 2016), pagano le tasse e tengono in piedi il sistema pensionistico. Secondo i “local” gli immigrati sono un costo per lo stato (1,7 miliardi nel 2016); il mercato del lavoro non ne ha bisogno e la comunità può farne a meno, soprattutto se non si identificano nei valori della società ospitante e non ne rispettano leggi e principi fondamentali.