Basterà l’altruismo a salvarci dall’invasione degli ultra robot?

scritto da il 20 Giugno 2018

L’autrice di questo post è Azzurra Rinaldi, docente di economia politica all’Università di Roma Unitelma Sapienza –

Stando alle proiezioni elaborate dal sito Will Robots Take My Job, che fornisce una previsione sulla possibilità che il proprio lavoro venga svolto dall’intelligenza artificiale, noi economisti abbiamo attualmente il 43% delle possibilità di essere sostituiti da processi automatizzati. Non siamo soli: le recenti stime del World Economic Forum avvisano che, a causa dell’automazione, si perderanno circa 5 milioni di posti di lavoro entro il 2020.

Non è necessario aspettare tanto: secondo il Rapporto McKinsey 2016 – Where Machines Could Replace Humans – and Where They Can’t (Yet), fino al 45% dei compiti attualmente svolti ogni giorno dai lavoratori potrebbe essere effettuato dalla tecnologia corrente. Le preoccupazioni causate dal crescente utilizzo dell’intelligenza artificiale sono legate prevalentemente all’ondata di licenziamenti che si teme (anzi, pare sia certo) ne conseguiranno.

In realtà, come ormai è noto a tutti, anche a seguito dello scandalo dei dati diffusi da Facebook, l’automazione è già, talora inconsapevolmente, presente nella vita della maggior parte di noi. Basti pensare agli algoritmi che vengono utilizzati dai social network per mostrarci quelle foto, quei post e quegli annunci che si ritiene possano attirare maggiormente la nostra attenzione. Il meccanismo è talmente perfetto che rischia di sollevare concreti dubbi sull’utilità futura dell’essere umano.

C’è, tuttavia, un barlume di speranza: gli algoritmi su cui è basata l’intelligenza artificiale stentano (ancora) ad imitare l’essere umano in una sua fondamentale caratteristica: la creatività. Sebbene, laddove dovutamente programmati, i robot possano ricreare poesie, musica o dipinti, quello che manca è l’improvvisazione. La psicologia comportamentale ci insegna che le capacità di adattamento e di improvvisazione sono tra i principali fattori che hanno consentito all’Homo Sapiens di sopravvivere. È interessante notare che queste caratteristiche (la creatività, l’improvvisazione, la capacità di prendere decisioni in condizioni di incertezza) vengano considerate come distorsioni anche dal mainstream della teoria economica su cui si basano i fondamentali modelli micro e macroeconomici. L’Homo Oeconomicus, infatti, è razionale, egoista, amorale, orientato ai propri scopi di massimizzazione.

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La nascita dei concetti alla base dell’Homo Oeconomicus si fa risalire ad Adam Smith, il quale, ne La Ricchezza delle Nazioni, introduce il concetto di razionalità in prospettiva economica, individuando nell’egoismo uno dei tratti umani in grado di far funzionare i mercati. Ciononostante, ne La teoria dei sentimenti morali, di poco antecedente, è sempre Smith che afferma che una delle caratteristiche proprie dell’essere umano è l’empatia. È solo con John Stuart Mill che l’egoismo e l’avidità, ovvero i comportamenti umani legati alla ricchezza, vengono isolati come vero oggetto della teoria economica. Questa semplificazione diventa mainstream.

A questo quadro, già distante dalla realtà, Frank Knight aggiunge due nuove caratteristiche che rendono l’Homo Oeconomicus un’efficientissima macchina da guerra: perfetta conoscenza e perfetta preveggenza. Questo modello di essere umano, che viene delineato in maniera volutamente strumentale perché i suoi comportamenti possano essere formalizzati in modelli economico-matematici, con Milton Friedman si impone quale modello di riferimento da perseguire (tutti ricordiamo il personaggio di Leonardo DiCaprio in The Wolf of Wall Street). Sotto questo profilo, la teoria economica è stata ampiamente supportata dalle teorie evoluzioniste: da Darwin in poi, è ben noto che solo i più forti (competitivi, aggressivi) sopravvivono.

L’essere umano (e non solo economico), se vuole essere razionale, deve quindi tendere alla solitudine, all’egoismo, all’opportunismo. Diverse ricerche mostrano come gli studenti delle Facoltà di Economia sarebbero meno critici nei confronti della corruzione e anche tendenzialmente più egoisti rispetto a quanti studiano materie diverse (ad onor del vero, altri studi dimostrano anche che i docenti che insegnano materie economiche fanno meno beneficenza rispetto ai colleghi di altre materie).

Ciononostante, sebbene la sua strategia di sopravvivenza sia incentrata sulla più bieca reciprocità (collaboro, ma solo finché anche tu collabori), quella dell’Homo Sapiens viene riconosciuta come la specie più collaborativa del pianeta ed è anche grazie alla collaborazione che ha ottenuto informazioni che gli hanno consentito di sopravvivere. Allo stesso modo, l’Homo Oeconomicus, nella realtà, adotta alcuni comportamenti che sono identificati come distorsioni cognitive (ovvero, come azioni che ne allontanano il comportamento reale dalle ipotesi di perfetta razionalità), ma che si rivelano funzionali all’adattamento della specie e che consentono di prendere decisioni in condizioni di incertezza.

Fortunatamente, qualcosa sta cambiando. In un interessante volume pubblicato lo scorso anno (“L’economia della ciambella”), l’economista inglese Kate Raworth propone un nuovo paradigma di produzione e consumo che rappresenta, appunto, con una ciambella e che pone nuovamente al centro la natura umana. Il nuovo modello proposto si basa su sette mosse che dovrebbero consentire di pensare ad un’economia diversa: cambiare l’obiettivo, vedere l’immagine complessiva, coltivare la natura umana, acquisire la comprensione dei sistemi, progettare per distribuire, creare per rigenerare e (obiettivo particolarmente impegnativo per molti economisti) essere agnostici riguardo alla crescita.

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L’apporto di Raworth, innovativo nell’immagine che evoca, è in realtà inserito all’interno di un ambito di studi ben consolidato, riportato recentemente in auge dall’economia circolare, che propone di abbandonare il paradigma lineare a cui siamo abituati (sfruttamento della risorse, produzione e consumo, scarto) per entrare in una nuova prospettiva circolare, nella quale vengono rispettati i naturali tempi di rigenerazione delle risorse naturali e ciascun agente economico (produttori, consumatori, ma anche istituzioni) viene richiamato ad un principio di responsabilità nelle scelte anche economiche che compie.

È da notare che anche le teorie evoluzioniste si stanno orientando nella medesima direzione: David Sloan Wilson (“L’altruismo. La cultura, la genetica e il benessere degli altri”) ha recentemente dimostrato come i gruppi che comprendono, al loro interno, un più elevato numero di elementi altruistici sono anche quelli che hanno le maggiori probabilità di sopravvivenza. La speranza è che, in tempi rapidi, iniziamo a ricordarcene anche noi.

Twitter @economistaxcaso