I distretti tecnologici in Italia: ovvero il rischio di nuove cattedrali nel deserto

scritto da il 05 Luglio 2018

Serie di post curata da Neos Magazine. L’autore è Alessandro Tugnetti, studente al terzo anno di Economia e Commercio all’Università degli Studi di Torino e Junior Allievo presso il Collegio Carlo Alberto.

POLITICA VALUTATA: l’effetto dell’introduzione, con il Programma nazionale per la ricerca del 2002, dei distretti tecnologici di imprese sul tessuto produttivo italiano

OBIETTIVO: potenziare la capacità d’innovazione e la competitività delle imprese italiane attraverso la creazione di sinergie tra imprese, Università e centri di ricerca senza specifiche barriere territoriali.

EFFETTO: positivo, ma moderato e eterogeneo: positivo sulla redditività non operativa ma nullo su quella operativa, positivo sulle aziende più grandi ma nullo per quelle più modeste. La politica, inoltre, ha avuto più successo nel Nord-Ovest che nelle altre zone d’Italia.

I distretti tecnologici sono stati definiti nel 2002 all’interno del Programma nazionale per la ricerca del MIUR; questi sono definiti come degli aggregati locali di imprese high-tech, costruiti per creare una rete concentrata geograficamente di imprese, Università e centri di ricerca al fine di migliorare le capacità di innovazione e di competitività delle imprese che ne fanno parte. Teoricamente, questi distretti sono vantaggiosi per tutte le entità che ne entrano a far parte: le imprese riescono a far rete con le altre presenti nel distretto, le Università possono ottenere dati utili per effettuare nuove ricerche, mentre le autorità pubbliche presenti (Regioni, Province e Comuni) hanno la possibilità di promuovere e coordinare le attività presenti nel distretto. L’idea riprende il concetto di “tripla elica” formulato alla fine degli anni ‘90 da Etzkowitz e Leydesdorff, secondo cui l’attivazione del flusso di conoscenza che porta all’innovazione è dovuta essenzialmente all’integrazione strategica tra Ricerca, Governo ed Industria.

Per effettuare una valutazione attenta degli effetti di questa politica, da ora in avanti ci si baserà sulla pubblicazione n.313 della Banca d’Italia intitolata “Politiche locali per l’innovazione: il caso dei distretti tecnologici in Italia” di F. Bertamino, R. Bronzini, M. De Maggio e D. Revelli.

Alla fine del 2011, i distretti tecnologici in Italia erano 29, sparsi in 18 delle 20 regioni italiane (mancano infatti Marche e Valle d’Aosta), con un totale di 2298 imprese all’interno. Sorge ora un dato importante: vi è una forte eterogeneità nella struttura dei distretti tra le varie zone d’Italia: nel Nord-Ovest questi sono più grandi e settorialmente più diversificati (anche se la loro specializzazione non riflette la struttura economica dell’area dove sono inseriti); nel Nord-Est questi sono più piccoli rispetto al N.O. ma rispecchiano più la specializzazione industriale dell’area; al Centro la loro struttura è molto simile a quella dei distretti del N.O.; infine al Sud ci sono molti più distretti che nelle altre aree ma questi sono piccoli, poco diversificati e poco fedeli alla struttura produttiva dell’area.

NEL GRAFICO: le quote di aziende che fanno domanda di registrazione di almeno un brevetto a sinistra, e il numero medio di domande presentate, moltiplicate per 100, sulla destra. In Italia e divise per zone. In blu, le aziende che non appartengono ad un distretto, e in verde quelle che appartengono ad un distretto.

NEL GRAFICO: le quote di aziende che fanno domanda di registrazione di almeno un brevetto a sinistra, e il numero medio di domande presentate, moltiplicate per 100, sulla destra. In Italia e divise per zone. In blu, le aziende che non appartengono ad un distretto, e in verde quelle che appartengono ad un distretto.(fonte: Bankitalia)

La spiegazione di tutto ciò è da ricercarsi nella genesi stessa dei distretti: la nascita di quelli al Nord è stata solo una mera formalità: di fatto erano zone ad alta produzione tecnologica che esistevano già prima degli anni 2000; al Sud, invece, i distretti sono nati prevalentemente come strumento per favorire l’innovazione di piccole imprese locali creando una rete che le collegasse con i grandi centri di ricerca.

La maggior parte di queste aziende apparteneva al settore industriale o dei servizi (1134 di 2298), poi troviamo le imprese che si occupavano di ICT (259 aziende), ed infine quelle che costruivano prodotti elettronici (326). I settori meno rappresentati erano quelli della carta e pubblicazioni e quello del tessile (il che stupisce, vista la grande tradizione italiana).

Gli studiosi citati prima, per stabilire l’efficacia dei distretti, hanno comparato i bilanci delle aziende all’interno ed all’esterno dei distretti, comparando soltanto aziende appartenenti agli stessi settori e localizzate nelle medesime regioni, per ottenere particolari risultati:

1. Grandezza: le imprese all’interno dei distretti sono, in media, 8 volte più grandi rispetto a quelle che non ne fanno parte; inoltre, soprattutto al Nord-Est, le imprese all’interno sono più omogenee in termini di dimensioni rispetto a quelle all’esterno.

2. Redditività: il ROA (return on assets) delle aziende nei distretti è molto simile a quella delle aziende al di fuori dei distretti; quella operativa, tuttavia, (EBITDA/ASSETS) è addirittura migliore per le aziende fuori dai distretti (!) specialmente nel Sud e nel Nord-Est Italia.

3. Propensione all’investimento: le imprese all’interno del distretto sono più portate all’investimento rispetto a quelle all’esterno. Ma le prime sono più soggette all’indebitamento esterno, visto che possono usufruire di fondi statali ed europei, quindi sono molto più dipendenti finanziariamente rispetto a quelle all’esterno.

4. Propensione all’innovazione: mediamente le imprese all’interno innovano marcatamente di più, infatti il numero medio di brevetti registrati per azienda all’interno del distretto è di 30, contro i 4 di quelle all’esterno.

Tuttavia, bisogna tenere presente il fatto che ancora prima della creazione dei distretti stessi, le aziende più redditizie, innovative e grandi erano tendenzialmente quelle che sceglievano di entrare a far parte di distretti innovativi.

Andando, dunque, a comparare soltanto aziende molto simili fra loro, in modo tale da isolare l’unico effetto della partecipazione ad un distretto, e studiando le evoluzioni nel tempo delle aziende all’interno dei distretti rispetto a quelle fuori, si trova un quadro meno entusiasmante. Il risultato è un effetto positivo sulla redditività misurata attraverso il ROA, ma sostanzialmente nullo sulla redditività operativa. Per intenderci, la differenza non si riscontra tanto sulle attività tipiche dell’azienda, ma sulle attività accessorie e finanziarie. Inoltre, l’effetto è positivo sulle aziende più grandi, ma di nuovo di fatto nullo per le aziende di dimensioni più modeste. Infine, si riscontra come questa policy abbia avuto molto più successo sulle aziende del Nord-Ovest che sulle altre zone d’Italia.

LinkedIn: Alessandro Tugnetti