Così le cattive multinazionali e la Ue spingono occupazione e produttività in UK

scritto da il 27 Luglio 2018

Due interessanti ricognizioni svolte dall’istituto britannico di statistica (Ons) ci consentono di apprezzare la notevole importanza relativa che ha la globalizzazione nell’economia del Regno Unito (UK), per gli effetti che genera nell’occupazione e nella creazione di valore. La prima analisi proposta è la Business survey nel settore delle imprese non finanziarie con proprietà estera. Nel 2016 in UK erano registrate 2,5 milioni di imprese non finanziarie delle quali poco meno di 25 mila, quindi circa l’1% risultava a controllo estero.

Nonostante questa piccola proporzione, questi business hanno contribuito per 324,3 miliardi di sterline, il 27,2%, alla crescita del valore aggiunto complessivo del settore delle imprese non finanziarie britanniche. La maggioranza di queste proprietà era di provenienza europea. Parliamo del 55,6% del totale delle imprese a capitale estero censite (13.542 complessivamente) che rappresentano 152,7 miliardi di valore aggiunto pari al 47,1% del totale. Questo dato, nell’anno in cui è stata votata la Brexit, da la misura della complessità delle negoziazioni fra l’Ue e l’UK sul futuro delle loro relazioni. Si osserva che, sempre quell’anno, il numero delle aziende britanniche a capitale Usa è diminuito, pure se è aumentato dell’8,1% il contributo di queste compagnie alla produzione di valore. All’interno dell’UK il numero maggiore di imprese arriva dall’Inghilterra, che ha la proprietà dell’88,5% delle imprese non finanziarie.

La seconda analisi è anche più istruttiva. L’oggetto stavolta sono gli investimenti diretti, dei quali, in termini generali, abbiamo già discusso altrove. L’Ons fa ovviamente riferimento ai dati dell’UK, mantenendo comunque la distinzione fra gli investimenti diretti in uscita (outward FDI), ossia quelli fatti dalle compagnie britanniche all’estero, che vengono considerati come crediti, e gli investimenti diretti in entrata (inward FDI), che equivalgono agli investimenti fatti dagli stranieri in UK, che vengono classificati contabilmente come debiti.  Il saldo dei redditi degli investimenti diretti è positivo per l’economia britannica. Ciò vuol dire che l’UK riceve dai suoi investimenti diretti (crediti) un rendimento maggiore di quello che paga agli investitori esteri (debiti). Nel 2017 il valore di questi rendimenti ricevuti è notevolmente cresciuto, con un incremento di 23,5 miliardi, invertendo un trend che declinava dal 2011, quando i crediti dall’estero ammontavano a 104,6 miliardi di sterline, dimezzandosi quasi a 58,4 nel 2016. Nel 2017 i crediti sono arrivati perciò a 81,9 miliardi, mentre i debiti, che sono sostanzialmente stabili dal 2011, sono stati 59,8 miliardi.

Detto in altre parole, per l’UK è molto conveniente essere un’economia globalizzata. I suoi investimenti esteri le consentono ogni anno di incassare redditi superiori ai rendimenti che deve pagare ai suoi investitori esteri. Peraltro gli investimenti diretti sono praticamente l’unica componente attiva della bilancia dei pagamenti britannica, il cui conto corrente è in deficit fin dal 1983.

Il notevole peggioramento del saldo corrente britannico registrato si deve proprio al calo dei redditi da investimenti diretti registrato dal 2011.

Se guardiamo agli stock, è utile sapere che il saldo complessivo fra gli asset esteri e gli asset dell’estero sull’UK, ossia la posizione netta sugli investimenti (NIIP), si sta progressivamente azzerando, pure se mantiene ancora un piccolo surplus.

La qualcosa aggiunge un altro elemento di fragilità all’economia britannica, alle prese con la difficile transizione della Brexit che genera notevole incertezza fra gli investitori esteri, specie europei. Ma l’importanza degli investimenti diretti per l’UK si può apprezzare ancor di più osservando il ritorno degli investimenti che, come si può osservare dai grafici sotto è alquanto elevato, variando da un picco di oltre il 7% a un minimo (nel 2016) di circa il 3%. Al contrario i rendimenti pagati dall’UK sono rimasti stabili fra il 3,8 e il 4,4%.

Interessante osservare che l’impatto della svalutazione della sterlina nel corso del 2017 ha influito positivamente per circa due miliardi sul valore dei crediti britannici, ma a fare la differenza sono stati altri fattori, primo fra i quali l’aumento della redditività degli investimenti.

Per avere un’idea del livello di internazionalizzazione dell’economia britannica è utile osservare chi siano i principali investitori diretti nel paese. Le variazioni negli importi dipendono dal metodo di rilevazione adottato.

Ma l’importanza degli investimenti diretti per l’economia britannica si apprezza ancora di più se oltre all’osservazione dell’impatto sulla bilancia dei pagamenti, si prova a determinare quello sulla cosiddetta economia reale, quindi su occupazione e produttività. A tal fine l’ONS ha svolto alcune rilevazioni sperimentali basate su microdati che presentano evidenze molto interessanti, anche se certo ancora provvisorie. La prima è che malgrado solo l’1,1% delle mondo imprenditoriale britannico sia destinatario di investimenti diretti, questa minoranza dà lavoro a quattro milioni di persone nel paese, il 16,8% dell’occupazione totale. Da notare che 2,1 milioni di questi lavoratori sono impiegati in aziende che hanno ricevuto investimenti diretti dall’Ue (dato 2016).

Si tratta in larga parte di multinazionali, come è nella logica degli investimenti diretti. E l’analisi mostra pure come le imprese che attraggono questi investimenti generino in media maggiore occupazione. Non solo. Comparando i livelli di produttività, emerge che le aziende destinatarie di investimenti diretti tendono ad essere più produttive per una serie di ragioni che non serve elencare qui. È sufficiente osservare che un’economia internazionalizzata come quella britannica ha tutto da perdere e molto poco da guadagnare quando si fa sedurre da tentazioni isolazionistiche.

Tanto più quando riguardano i paesi dirimpettai.