L’Italia ha bisogno del libero scambio: ecco perché dire no al CETA sarebbe un errore

scritto da il 18 Settembre 2018

Nel corso di questi ultimi mesi il governo Lega-M5S ha più di una volta fatto intendere che l’Italia non ratificherà il CETA, l’accordo di libero scambio tra l’Unione Europea e il Canada. Lo ha detto chiaramente a giugno il ministro dell’agricoltura Gian Marco Centinaio, e più recentemente, a luglio, ha avanzato dubbi anche il vice Presidente del Consiglio Luigi Di Maio.

Ad oggi il governo non ha ancora annunciato quando intenderà avviare il dibattito parlamentare sulla (non)-ratifica dell’accordo. Dopo essere entrato in vigore, in modo provvisorio, a partire dal 21 settembre 2017, il CETA deve adesso essere ratificato da tutti i parlamenti dei 28 Stati membri e da 10 Assemblee regionali. Quasi la metà degli Stati membri hanno già dato il via libera al trattato. Il Canada, per parte sua, ha ratificato l’accordo il 16 maggio 2017. In Italia, invece, il dibattito parlamentare sul CETA è slittato a data da destinarsi dopo che la proposta in tal senso da parte della Senatrice Loredana De Petris, attuale capogruppo del Gruppo Misto, è stata accolta dal governo Gentiloni e dagli altri partiti di opposizione lo scorso 27 settembre.

Se il governo deciderà, come al momento sembra più probabile, di rinviare il dibattito parlamentare “sine die”, il rischio è quello di assistere ad una situazione analoga a quella osservata durante il processo di ratifica dell’accordo di libero scambio tra Unione Europea e Corea del Sud. Questo accordo fu inizialmente firmato il 15 ottobre 2009 e applicato in via provvisoria a partire dal 1° luglio 2011. Nonostante i benefici che aziende e consumatori italiani hanno ottenuto da questo accordo di libero scambio (secondo il stesso Ministero dello Sviluppo Economico italiano le esportazioni italiane in Corea del Sud sono aumentate di circa il 63% tra il 2010 e il 2016), l’Italia fu uno degli ultimi Stati membri a ratificare il trattato, votando a favore solo nella primavera del 2015. Questo accordo di libero scambio è stato poi pienamente ratificato dai paesi UE nel Dicembre 2015.

Come avuto già modo di scrivere sia un recente report estivo per l’Istituto Bruno Leoni, sia in alcuni articoli per think-tank europei, la decisione del governo italiano di non ratificare il CETA sarebbe un grave errore. Contrariamente a quello che molti sembrano credere, il CETA stimolerà la crescita economica, aiuterà centinaia di migliaia di piccole e medie imprese europee a trovare nuove opportunità di sviluppo e crescita in un mercato importante come quello canadese e sosterrà la creazione di nuovi posti di lavoro. Secondo le simulazioni più recenti realizzate dalla Commissione Europea si stima che verranno creati circa 14 mila nuovi posti di lavoro all’interno dell’UE per ogni miliardo di euro di esportazioni verso il Canada.

Tabella 1: Esportazioni italiane e posti di lavoro dipendenti dal commercio internazionale. Tabella ripresa da studio Istituto Bruno Leoni. Dati Commissione Europea del 2015.

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Da un paio di anni a questa parte i partiti italiani continuano a preferire un dibattito sul CETA basato sul terrorismo psicologico piuttosto che guardare ai dati e ai fatti. Troppe, infatti, sono le fake news raccontate agli italiani in televisione, nelle interviste ai giornali, sui social media e durante comizi e appuntamenti politici ufficiali.

Tra le molte fake news riportate dai vari esponenti del governo (ma usate anche da partiti sovranisti della “vera” sinistra e della destra nazionalista) troviamo: 1) la scarsa protezione dei nostri prodotti dop e igp; 2) la necessità di proteggere maggiormente il “Made in Italy”; 3) la svendita del lavoro a causa delle multinazionali e la perdita di decine di migliaia di posti di lavoro; 4) l’arrivo sulle nostre tavole di bistecca agli ormoni, di mais OGM e di grano duro trattato con glifosato; 5) le incredibili storie sulla “Risoluzione delle controversie tra investitore e Stato”.

Secondo quanto riporta l’Istituto nazionale per il commercio estero (ICE), tra il 2015 ed il 2017, gli scambi commerciali tra Italia e Canada sono cresciuti di oltre il 6% e sono in costante crescita dal 2009. Per quanto riguarda lo scambio di beni il Canada è il 15° partner commerciale dell’Italia al di fuori dei paesi dell’Unione Europea, mentre per quanto concerne i servizi il Canada risulta essere il nostro 9° principale partner extra-UE. Come riportano i dati più recenti, oltre 13 mila aziende italiane, delle quali circa l’80% sono piccole e medie imprese, esportano ogni anno in Canada. Dalle automobili ai macchinari elettronici, dal vino ai servizi di telecomunicazione, dai prodotti chimici e farmaceutici al tessile, oltre 65mila posti di lavoro dipendono o sono strettamente legati alle esportazioni italiane in Canada. Oltre a questo e’ interessante notare come gli uffici ICE di Toronto riportino dati molto favorevoli per l’Italia. Dei 10 maggiori esportatori verso il Canada, insieme alla Francia, l’Italia e’ il paese UE che ha visto un maggior incremento dei suoi export verso il paese nord-americano tra il primi mesi del 2017 (quando il CETA non era ancora entrato in vigore in modo provvisorio) ed i primi mesi del 2018.

Tabella 2: Principali esportatori europei verso il Canada. Andamento export tra inizio 2017 e inizio 2018. Dati Istituto nazionale per il commercio estero (ICE).  

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Guardando invece alle “cattive” multinazionali canadesi, Magna International, il principale produttore di parti per automobili del Canada e la più grande azienda canadese con un fatturato di quasi 46 miliardi di dollari canadesi nel 2016, dà lavoro in Italia a 2.225 persone. La stessa Magna International è presente in 14 paesi UE con oltre 56.350 lavoratori. Invece, Bombardier, la terza multinazionale più grande del Canada con un fatturato annuo di oltre 20 miliardi di dollari canadesi, è presente in 17 paesi UE, in Italia da lavoro a circa 1.000 persone e impiega oltre 66 mila lavoratori in tutto il mondo. Insomma, le multinazionali non ci rubano nessun posto di lavoro. Anzi, lo creano. Inoltre, come dimostra l’ormai ampia letteratura sugli effetti delle multinazionali, oltre a garantire posti di lavoro generalmente stabili, la presenza di queste ultime all’interno di un’economia avanzata come quella italiana tende a produrre importanti ricadute (spillovers) in termini di produttività, di investimenti, di ricerca e sviluppo, di innovazione.

Inoltre, contrariamente alla vulgata sovranista di Di Maio e di tanti altri esponenti dell’attuale governo è proprio grazie all’apertura dei mercati internazionali, al libero scambio e alla globalizzazione che il brand “Italia” è diventato famoso in tutto il mondo. Secondo i dati redatti dall’Osservatorio della complessità economica del Massachusetts Institute of Technology, una delle università più prestigiose del mondo, e della World Bank, nel corso degli ultimi 30 anni il valore delle esportazioni italiane è più che quintuplicato, passando da circa 90 miliardi a oltre 500 miliardi di dollari. In percentuale al Pil, invece, dal 1987 al 2017 il valore del nostro export è quasi raddoppiato, passando al 17% al 31% del Pil. Di conseguenza, la globalizzazione dei mercati, la diminuzione delle tariffe e di altre importanti barriere commerciali ed il costante aumento degli scambi transfrontalieri hanno permesso a centinaia di migliaia di imprese italiane di vendere più facilmente le proprie merci ed i propri servizi in tutto il mondo. Stando ai più recenti dati Istat-ICE, nel 2017 sono stati 217.431 gli operatori economici italiani che hanno effettuato vendite all’estero, un dato in forte e costante aumento. Nel 2000, il numero totale di imprese italiane che esportavano all’estero era di 188.915 (un numero inferiore di oltre il 13% rispetto al 2017).

Le aziende che operano in paesi esteri hanno bisogno di regole chiare e di tutele. Queste regole, che esistono da circa 60 anni e che si chiamano “sistemi di risoluzione delle controversie tra investitori e stato” aiutano anche gli Stati nazionali a legiferare nell’interesse dei propri cittadini.

Stando alle più recenti statistiche UNCTAD (Conferenza delle Nazioni Unite sul Commercio e lo Sviluppo), aggiornate al 31 dicembre 2017, oggi abbiamo più di 2.369 trattati bilaterali per gli investimenti in vigore, la stragrande maggioranza dei quali sono regolamentati da processi di risoluzione delle controversie tra investitori e stato. Il CETA, come riportato nel capitolo 8 del trattato, istituisce un nuovo sistema di risoluzione delle controversie attraverso un tribunale permanente a doppia istanza, il cosiddetto Investment Court System (ICS). Questo tribunale sarà composto da 15 membri (5 europei, 5 canadesi 5 di paesi terzi), prevede udienze pubbliche e assicurerà la protezione per gli investimenti garantendo in modo completo il diritto dei governi di regolare nel pubblico interesse.

Fino a oggi il Canada, essendo un paese di diritto anglosassone basato sul sistema del marchio d’impresa, non riconosceva nessuna tutela ai prodotti a denominazione di origine. Il fatto che, grazie al CETA, il Canada inizi a riconoscere il principio delle IG e del loro valore è un ottimo punto di partenza per l’intero brand “Made in Italy”. Con l’entrata in vigore dell’accordo si prevede la totale protezione di 172 denominazioni DOP e IGP europee, di cui ben 41 sono italiane. La lista rimane aperta per modifiche future e questo è un altro aspetto che gioca a vantaggio dei prodotti italiani. È interessante poi ricordare come il CETA tuteli il 98% delle esportazioni del settore verso il Canada. Per esempio, secondo i dati della Fondazione Qualivita, i 5 grandi DOP IGP italiani (Parmigiano Reggiano, Aceto Balsamico di Modena, Pomodoro San Marzano, Pecorino Romano e Mozzarella di Bufala Campana) realizzano oltre il 95% dell’export di prodotti di qualità “Made in Italy” in Canada, mentre la stragrande maggioranza delle DOP e IGP tende ad avere, per il momento, un mercato solamente nazionale.

Come viene riportato sul sito della Confederazione Italiana Agricoltori, i primi dati a nostra disposizione da quando il CETA è entrato in vigore in modo provvisorio sono chiari: scende l’import dei frumenti canadesi (ad esempio l’import di grano canadese trattato con glifosato sta calando drasticamente) mentre cresce l’export agroalimentare italiano verso il Canada. Qualora questo trend venisse confermato anche nei prossimi mesi, a fine anno le nostre esportazioni agroalimentari verso il paese Nord-Americano raggiungerebbero un valore di circa 910 milioni di euro, contro gli 800 milioni di euro circa del periodo precedente. In altre parole, si tratterebbe di un balzo di oltre l’11% in un anno solo.

L’utilizzo del glifosato è sempre stato ritenuto relativamente innocuo. Non è un caso, dunque, che la maggior parte degli studi più recenti e importanti sulla molecola in questione spieghino come quest’ultima non sia cancerogena per l’uomo (dall’EFSA alla FAO; dall’ECHA all’NPIC, passando per le agenzie sanitarie nazionali di Canada, Australia, Giappone e Nuova Zelanda). L’unico studio che ha inserito il glifosato tra le sostante “probabilmente tossiche” è quello pubblicato nel 2015 dalla IARC, l’agenzia internazionale per la ricerca sul cancro. A questo proposito è però necessaria un’importante precisazione: al medesimo gruppo delle sostanze “probabilmente cancerogene” (il gruppo 2A in base alla classificazione dello IARC) appartengono anche la carne rossa, alcuni composti chimici utilizzati dai parrucchieri, o le sostanze che si sprigionano dalla frittura ad alte temperature. Secondo questa classificazione, il glifosato sarebbe, per esempio, meno cancerogeno dell’esposizione al sole. Infine, come viene ricordato dalla IARC stessa, l’appartenenza a ciascun gruppo non è una misura del rischio concreto nella vita di tutti i giorni. Chissà perché tutti parlano di proibire il glifosato, ma nessuno parla di oscurare il sole.

Infine è giusto ricordare come il CETA non cambierà il modo in cui l’Unione Europea regola la sicurezza alimentare, compresi i prodotti OGM o il divieto di carni bovine trattate con ormoni. Come scritto chiaramente all’interno del trattato, gli standard europei rimarranno inalterati e le importazioni del Canada dovranno soddisfare tutte le norme e i regolamenti sui prodotti dell’UE, senza eccezioni. Le importazioni di carne canadese dovranno essere limitate nelle quantità e conformi alla regolamentazione UE (per esempio, le carni non dovranno essere trattate con ormoni). La carne bovina canadese, che verrà liberalizzata gradualmente, varrà lo 0,6% dei consumi UE, quella suina lo 0,4%. Le importazioni in Europa di mais canadese saranno graduali e raggiungeranno, una volta a regime, 8.000 tonnellate annue. Contrariamente a quello che ci viene detto dai sovranisti e nazionalisti nostrani, non si avrà nessuna invasione di prodotti canadesi. Solo reciprocità tra le quote di prodotti importati ed esportati.

Come ci ricordano 240 anni di letteratura economica, dal vantaggio assoluto di Adam Smith alla New Trade Theory di Elhanan Helpman, Paul Krugman e Paul Romer, il libero scambio migliora l’efficienza globale nell’allocazione di risorse; permette alle nazioni di specializzarsi nella produzione di tutti quei beni e servizi che queste sanno produrre meglio; consente ai consumatori di beneficiare notevolmente da metodi di produzione più efficienti; permette alle nazioni di crescere maggiormente nel lungo periodo. Il CETA ne è semplicemente l’ennesima, ulteriore, conferma.

Coloro che non vogliono ratificare il CETA, perché politicamente “catturati” dalle piccole lobby di turno (si pensi allo sforzo di Coldiretti nel bloccare la maggior parte dei trattati di libero scambio), sono i primi ad essere contro l’interesse degli italiani, dell’impresa italiana e del futuro successo del “Made in Italy”.

Twitter @cac_giovanni

NOTA

Per ulteriori informazioni potete leggere il report “Altro che sovranismo. L’interesse nazionale è la globalizzazione. Il caso del Ceta” pubblicato dall’Istituto Bruno Leoni il 30 luglio 2018: http://www.brunoleoni.it/altro-che-sovranismo-2