Startup e scaleup, le donne sanno gestire meglio il rischio?

scritto da il 30 Novembre 2018

Di startup ormai se ne parla tanto, persino in Italia. Quando si tratta d’investimenti scegliere bene è diventato un obbligo, specie in Italia dove i soldi non crescono sugli alberi. Non è mia ambizione indicare in quale settore industriale (dove sono presenti anche startup) convenga investire. Trovo tuttavia che sia interessante parlare del rischio insito nell’investire nelle startup e come ridurre l’esposizione al rischio.

Ovviamente non è una scienza esatta, e chiunque investa sa che maggiori sono i potenziali guadagni maggiori sono i potenziali rischi. Un tema interessante e, sino ad oggi, non ancora affrontato correttamente (opinione personale si intende) è quello delle scaleup startup. Gli investitori europei (anche i venture capital) sono meno propensi a lanciarsi in investimenti “spericolati” rispetto ai colleghi americani. Per questo motivo comprendere alcune differenze tra scaleup e startup è fondamentale.

Alcuni elementi di distinzione
Una startup sta ancora sperimentando, per dirla in modo giocoso, sta ancora zampettando nel mercato: cerca di orientarsi, sperimenta (specialmente se parliamo di realtà che offrono prodotti digitali), deve ancora testare la sua gente e il suo team. Vi sono una serie di percorsi, anche psicologici, che all’inizio sono fondamentali per ogni startup. Non esiste una formula per la startup perfetta e ogni team deve trovare il suo mondo e creare il suo ecosistema.

Una scaleup ha già fatto “il primo giro di boa”. Ha validato il suo prodotto/servizio all’interno del suo mercato di riferimento. Ha dimostrato ai primi investitori (FF Family & Friends) che può stare in piedi, magari brucia ancora cassa, ma intanto si sta muovendo nella direzione giusta. Come riporta SEP ( Startup Europe Partnership), una delle più accreditate piattaforme europee che monitora il fenomeno startup, nei primi 6 mesi dell’anno 23 nuove scaleup si sono aggiunte al conto, portando il numero di scaleup italiane a oltre 200 unità. L’Italia è all’ottavo posto per numero di nuove scaleup.

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Per fare il punto della situazione ho pensato di parlarne con alcuni esperti che si confrontano o vivono l’esperienza delle startup/scaleup. Per evitare sempre di parlare con gli uomini ho pensato di analizzare questo fenomeno dal punto di vista femminile. Una visione sessista? No: mi piace pensare che le donne hanno un approccio differente, quando si tratta di gestire il rischio: un approccio molto personale quasi più affine al mentoring che al semplice investimento economico. Per questa ragione ho pensato di dialogare con 3 donne che affrontano il rischio (lavorativo, si intende) tutti giorni.

La parola alle donne
Angela Montanari, esperienza in grandi multinazionali e investitrice in startup e Cfo di una scaleup, Fruttaweb. Fausta Pavesio è una investitrice e mentor seriale. Ha lavorato per numerose multinazionali e oggi è advisor e investitore in startup. Riccarda Zezza è la fondatrice di Life Based Value, una scaleup startup che ha di recente raccolto oltre 600.000 euro e, attraverso la piattaforma MAAM, mira a offrire una visione operativa sul valore dell’esperienza genitoriale in ambito aziendale.

“La scaleup, in linea di massima, si è già data una struttura – apre Angela -, ha già fatto un passo avanti. Ha imparato a concentrarsi sul mercato finanziario. La scaleup ha già inserito nelle figure esterne, per esempio, un Cfo o qualcuno che si occupa delle risorse umane. Sul lato interno ha già cominciato a darsi un minimo di organizzazione (i mercati finanziari te lo chiedono). Ha già fatto campagne di crowdfunding, si è già misurata con le richieste dei mercati regolamentati. La scaleup sta già parlando coi venture capital. Se è nel mondo dell’intelligenza artificiale sta già parlando con gli Stati Uniti”, mi spiega Angela.

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“Quando parliamo di scaleup – attacca Fausta – comincia ad esistere una massa critica anche in Italia. A mio avviso cominceranno a muoversi meglio anche i venture capital perché si può ridurre il rischio. Sicuramente la località di partenza gioca un ruolo fondamentale, almeno all’inizio. Non è segreto per nessuno che partire da Milano o Roma, può aiutare. Sono ecosistemi più maturi. Ciò non toglie che vi sono esperienze molto interessanti anche al Sud. Sicuramente un aspetto importante è avere un centro di ricerca (ma anche una semplice università) che può essere un aggregatore iniziale di menti brillanti e creative”.

Ridurre l’esposizione al rischio
Sul tema ridurre l’esposizione al rischio, muovendosi verso le scaleup, Fausta ha le idee chiare. “Il soggetto che investe determina, almeno in parte, il target. Se consideriamo, per esempio, un family officer, le scaleup sono un bersaglio interessante. Tuttavia ancora meglio, per un family officer, è puntare a fondi che già investono in scaleup. In questo modo si riduce ulteriormente l’esposizione aprendo una posizione nel mondo dell’innovazione. Io sto lavorando con un fondo nuovo che ha come obiettivo di investire in realtà che hanno già fatto il primo round e puntano ad un round B”, mi spiega Fausta.

Un tema che spesso mi pongo è come una rete “femminile”, o dove una amplia fetta di attori sono donne, possa agire nell’analizzare e affrontare il rischio. “Da donna – mi dice Angela – quando faccio le analisi soppeso anche le parti soft, cioè le persone. Cerco di capire le caratteristiche delle persone che portano avanti il progetto, se sono soggetti che possono rassicurarti oltre i numeri. È un approccio che privilegia i fattori umani: chiacchiere, interazioni, colloqui, anche molto verbali ma che mi servono per valutare l’approccio e l’attitudine. Vado a tener conto dell’esito di questo e li tratto come se fossero un BETA (termine finanziario) e cerco di usare l’esito delle interviste per capire. Questo viene fatto di più dalle donne che non dagli uomini. Sono una grande supporter della visione di una managerialità femminile. Le donne portano un equilibrio tra i generi. Abbiamo indubbiamente un modo differente di guardare al rischio. Come Cfo io non interpreto il mio ruolo limitato ai numeri. Nei fatti un bravo Cfo è un vero e proprio direttore generale. Che sia una startup da un euro di fatturato alla GE. Anche se tu non sviluppi il business però questo non ti esula dal conoscere il business nel quale lavori esattamente come lo conosce il Ceo”, conclude Angela.

Anche Fausta sembra essere su una posizione simile. “Di recente ho assistito a una conferenza dove si menzionava il fatto che le donne che fanno i business angel, come me, hanno un ritorno economico maggiore. Non posso parlare per tutta la categoria ma, nel mio caso, quando devo valutare un investimento non mi soffermo solo sui numeri. Fare il business angel è anche una condizione di pancia. Non mi interessa solo il business plan; quando ho conosciuto Riccarda di Maam era già in uno stato più avanzato rispetto ad altre realtà che ho valutato e partecipato. Quello che ho compreso era che il processo mentale e lo sviluppo operativo di Riccarda mirava a un cambiamento radicale della visione della donna-mamma nell’ambito lavorativo e aziendale”, conclude Fausta.

Che cosa cambia la nascita di un figlio
Per capire quindi cosa possa significare affrontare il rischio in una scaleup due chiacchere con Riccarda sono necessarie. “La nascita di un figlio è (di solito) visto come un problema legato a temi come periodi di assenza, minore disponibilità di tempo, minore impegno: supposizioni che portano le donne ad avere carriere meno brillanti e a subire fenomeni di pay gap (sei donna, ti pago meno).

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“Nelle classifiche europee l’Italia ha un gap più basso perché in Italia la donna ha posizioni meno retribuite e la qualità del lavoro femminile è bassa. D’altra parte, 1 donna su 3 non torna a lavorare dopo il primo figlio/a e molte di coloro che tornano hanno contratti part-time. Non c’è elasticità: è difficile trovare lavoro anche dopo che il bimbo compie 3 anni. D’altra parte, nelle aziende emerge forte il bisogno di nuove competenze, e a nuove modalità di lavoro devono corrispondere nuove modalità di apprendimento. Questo perché il solo sviluppo tecnologico ha dimostrato di non poter garantire maggiore o migliore produttività se non avvengono degli investimenti anche nello sviluppo umano, se la tecnologia nelle aziende è più avanti della cultura. Quello che facciamo con MAAM è aiutare le aziende a investire nello sviluppo umano, facendo evolvere la cultura e consentendo di sfruttare meglio il potenziale tecnologico grazie al potenziale umano, con il risultato di una maggiore produttività”.

Il conflitto vita-lavoro
Ma in pratica che cosa significa sviluppare un nuovo paradigma di managerialità “generativa”, che integra le risorse ed energie maschili preesistenti con la ricchezza del femminile?

“Significa porre fine al tradizionale conflitto vita-lavoro: il lavoro è già entrato nella vita, facciamo in modo che avvenga anche il contrario e che la vita porti al mondo del lavoro nuove risorse ed energie. Come? Con un nuovo metodo di apprendimento che abbiamo chiamato Life based learning. Le nostre aziende si iscrivono a MAAM annualmente e ricevono accessi illimitati per mamme e papà di bambini tra gli zero e i tre anni. Nell’arco di sei mesi, i neo-genitori esplorano e iniziano a usare sul lavoro le competenze soft che l’esperienza genitoriale allena e ottimizza, come l’ascolto, la gestione del tempo, il problem solving, la creatività, l’intelligenza emotiva. Oltre 4.000 tra mamme e papà stanno facendo il percorso oggi e ci dicono che questa esperienza li fa sentire più forti e vicini alle loro aziende, e migliora le loro competenze fino al 35%. Alla fine, quindi, l’azienda scopre che le mamme – ma anche i papà! – sono un pool di risorse con competenze chiave e tratti lavorativi ulteriormente migliorati. Come spesso accade, l’innovazione portata da un segmento della popolazione che ha reagito a una situazione di svantaggio, ha finito col coinvolgere e portare beneficio a tutti”, conclude Riccarda.

La sfida che ora attende il mondo del management al femminile, nelle scaleup, è continuare a costruire un percorso di strategie e leadership che possa supportare la crescita di una gestione del rischio al femminile. Sempre di più si percepisce la necessità di un approccio che valorizzi l’esperienza e la visione delle molte manager donne che, nel tempo, hanno acquisito un’abilità di gestire il rischio più evoluta rispetto al mondo maschile.

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