L’Italia è ancora una repubblica fondata sul lavoro?

scritto da il 14 Gennaio 2019

L’autore di questo post è Gabriele Guzzi, laurea con lode in Economia alla Luiss e poi alla Bocconi. Ha lavorato per lavoce.info come fact-checker, è stato presidente di Rethinking Economics Bocconi e attualmente è dottorando presso l’Università Roma Tre –

L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro”. Così esordisce la nostra Costituzione, così i padri costituenti hanno deciso di elevare il lavoro a principio fondativo della Repubblica. La domanda che vorrei brevemente tentare di affrontare è se questa proposizione abbia ancora senso nel XXI secolo, o se l’evoluzione tecnologica e i cambiamenti strutturali della nostra economia non ci costringano invece a ragionare su un’idea diversa di lavoro, e quindi su una diversa fondazione della Repubblica.

Il presupposto da cui è necessario partire è che sebbene i beni capitali, persino quelli a maggiore intensità tecnologica, richiederanno sempre e comunque un contributo di lavoro, adoperato o in ricerca e sviluppo, o nella manutenzione e nel funzionamento, l’evoluzione tecnica a cui stiamo assistendo in questi ultimi anni causerà probabilmente una rivoluzione drastica ed inedita del modo in cui siamo stati abituati a concepire il lavoro e le nostre società.
L’utilizzo di capitale tecnologico è infatti più che raddoppiato in quasi tutti i paesi avanzati negli ultimi venti anni e i processi di automazione che ne sono derivati stanno mettendo a rischio una quota molto ampia dei posti di lavoro oggi esistenti, come si può notare dalle figure 1 e 2, presenti nel capitoloHow technology and globalisation are transforming the labour market” dell’Employment Outlook dell’Ocse e nel policy briefPutting faces to the jobs at risk of automation”.

schermata-2019-01-12-alle-17-44-01


Fonte: Oecd Employment Outlook 2017

Nei paesi Ocse infatti il 14% dei posti di lavoro rischia, con una probabilità maggiore del 70%, di scomparire nei prossimi anni, e di venire rimpiazzato da processi di automazione che non necessiteranno più di alcun contributo lavorativo, almeno per come esso è oggi inteso in quegli stessi processi produttivi. Inoltre, un ulteriore 32% dei posti di lavoro ha un rischio significativo di subire radicali trasformazioni legate a tecniche di automazione.

Figura 2: Quote di lavori a rischio di automazione

schermata-2019-01-12-alle-17-44-23Fonte: Ocse – Putting faces to the jobs at risk of automation

La questione veramente nuova dell’attuale rivoluzione tecnologica è la pervasività dei processi di automazione. Infatti se il processo tecnologico aveva storicamente riguardato lavori a bassa formazione che non richiedevano particolari qualità cognitive, le nuove tecnologie possono oggi sostituire, e in alcuni casi con performance migliori, lavori come “le diagnosi mediche e il brokeraggio assicurativo”. Tutte le mansioni a processi routinari, che siano ad alta o a bassa formazione, rischiano di essere coinvolte in un processo di ridefinizione radicale, che non solo cancellerà professioni oggi esistenti ma che probabilmente non assicurerà, in maniera automatica, la creazione di un numero pari o superiore di nuovi posti di lavoro a maggiore contenuto intellettuale.

Ed è questo il punto su cui mi vorrei soffermare. Compresa la pervasività e la dirompenza con cui il progresso tecnologico potrà assicurare migliori performance in tutti i settori, dovremmo interrogarci sulle modalità con cui verranno dispensati questi benefici lungo la distribuzione del reddito. In altre parole, dovremmo chiederci se l’automazione e il risparmio di manodopera ad essa conseguente ci stiano portando verso un’evoluzione diffusa dei nostri stili di vita, che saranno finalmente liberati dalle mansioni più gravose, o verso un mondo in cui pochi possiederanno la tecnologia e una moltitudine resterà senza reddito e senza lavoro.

Se infatti saranno i robot a generare reddito nei prossimi decenni, la vera domanda rilevante non è tanto “di chi sarà il lavoro rimanente?”, ma “di chi saranno i robot?”, come si chiede l’economista Laura Tyson. In altre parole: chi possiederà la tecnica e chi si accaparrerà i flussi di ricavi? Sicuramente sappiamo che già ora il connubio tra evoluzione tecnologica e processi di globalizzazione sta creando una severa polarizzazione all’interno del mondo del lavoro, sempre più diviso fra una piccola e crescente quota di lavoratori specializzati e straordinariamente retribuiti, un declino drastico della classe media in termini di occupazione e retribuzione, e un numero in aumento di lavori poco retribuiti e poco specializzati. Infatti, sebbene la polarizzazione avvenga in termini di quote occupazionali, con una crescita di domanda di lavoro per le professioni a bassa specializzazione, tale polarizzazione comunque non avviene in termini di retribuzione, in quanto la disuguaglianza cresce lungo tutta la distribuzione del reddito, ed anzi si incrementa agli estremi. Ovviamente esistono differenze radicali tra le aree del mondo, ma in media assistiamo a questo tipo di fenomeno.

schermata-2019-01-12-alle-17-44-36

Figura 3: Polarizzazione del lavoro: cresce la quota di lavoro ad alta formazione e a bassa formazione, mentre diminuisce la quota media. Fonte: OECD

La graduale perdita di potere contrattuale del lavoro è inoltre dimostrata dalla crescita di quelle forme occupazionali atipiche rispetto al tradizionale lavoro a tempo pieno, come ad esempio i contratti a tempo determinato, i contratti part-time e il lavoro interinale, che sono cresciuti in tutta Europa negli ultimi venti anni. Infatti, sebbene l’occupazione sia cresciuta in quasi tutti i paesi avanzati, come quota sulla popolazione, è necessario notare che tale parametro potrebbe non essere più adatto per valutare il coinvolgimento lavorativo effettivo di una popolazione. Infatti, la deregolamentazione del mercato del lavoro ha reso possibili forme contrattuali “a singhiozzo”, che non sono equiparabili in termini di ore lavorate e di retribuzione a un contratto a tempo pieno. Purtroppo sappiamo bene che tutti gli uffici di statistica, Istat compreso, valutano occupato anche chi ha lavorato una sola ora nella settimana di riferimento. E con il crescente numero dei famosi “lavoretti”, risulta assai paradossale porre una linea di demarcazione netta tra chi è realmente occupato e chi ha semplicemente svolto qualche ora di lavoro mal retribuito.

E ora capiamo meglio il bivio a cui siamo dinanzi. Come già intravedeva Keynes nel 1930, nella conferenza “Prospettive economiche per i nostri nipoti”, il progresso tecnologico pone l’uomo dinanzi a un’opportunità incredibile di trasformazione, ossia la risoluzione della problematica economica della necessità e del lavoro. Secondo Keynes, il “vecchio Adamo”, abituato per millenni “alla lotta per la sussistenza”, potrà liberarsi dalle catene del bisogno, dedicarsi a lavori più creativi, ed essere posto di fronte al suo reale problema, ossia “come impiegare la sua libertà dalle cure economiche più pressanti, come impiegare il tempo libero che la scienza e l’interesse composto gli avranno guadagnato, per vivere bene, piacevolmente e con saggezza.”

Una trasformazione antropologica e morale prima che sociale, che Keynes riteneva sarebbe accaduta entro cento anni, ossia nel 2030. A meno di radicali trasformazioni in questo ultimo decennio, la profezia di Keynes non sembra essersi realizzata, poiché ancora oggi ampie fasce della popolazione vivono schiave della necessità e del bisogno. E sebbene l’automazione ci abbia liberati da mansioni nei settori più gravosi dell’agricoltura e dell’industria, il problema economico sembra tutt’altro che risolto.

L’interpretazione di questa occasione mancata va a mio avviso ricercata nella diseguale distribuzione dei benefici derivanti dal progresso tecnico. Come afferma Anthony Atkinson la natura dell’automazione altera i rapporti di forza e gli equilibri di potere all’interno della società globalizzata, con il rischio che una piccola cerchia di grandi corporation possono disporre dei mezzi di produzione tecnologici tali da garantire flussi di reddito ingenti, senza tuttavia impiegare manodopera o distribuire in altro modo la ricchezza.

La potenzialità emancipativa della tecnica è stata quindi indebolita dallo squilibrio nella divisione dei suoi benefici, che oggi rischia inoltre di destabilizzare il senso stesso delle autorità democratiche, che si trovano alquanto impotenti a regolare o semplicemente a contrattare con grandi multinazionali che possono scegliere a loro piacimento, ad esempio, lo stato con le legislazioni più permissive sul lavoro e sull’ambiente, come afferma il grande sociologo britannico Colin Crouch.

Il progresso tecnico rientra quindi a pieno nelle competenze dello Stato, che si dovrebbe impegnare con maggiore lungimiranza a dirigere l’automazione con l’utilizzo di due parametri principali: il contenuto di tale progresso tecnico e la distribuzione dei suoi benefici. Infatti, la scelta di applicare una o un’altra tecnica non ha valenza neutrale, ma ha ripercussioni sull’occupazione, sull’ambiente e sulla società, e il privato, con la sola logica del profitto, non riesce spesso a valutare contemporaneamente tutti questi aspetti. Il famoso “capitalismo trimestrale” di Dominic Barton deve essere quindi controbilanciato da una visione a lungo termine che solo uno Stato può assicurare.

Il secondo sentiero riguarda come questo progresso sarà distribuito in forma reddituale tra i partecipanti delle nostre società. Infatti, sebbene il progresso tecnico possa effettivamente emancipare l’umano dal lavoro, condurlo lungo il sentiero del benessere e della creatività, come lo stesso Osborne afferma nel rapporto Ocse, questo processo, al contrario di quello che credeva Keynes, non avviene per necessità. Al contrario, se lasciato alla sua naturale evoluzione, il progresso tecnico, oggi accompagnato dalla globalizzazione delle catene del valore, acuisce le disuguaglianze e indebolisce la democrazia, facendo perdere potere contrattuale alle forze lavoratrici.

job loss

Per questo è oggi necessario ripensare la finalità stessa del progresso e dell’automazione, che deve essere valutata non solo nelle sue potenzialità tecniche ma anche e soprattutto nella sua reale efficacia di generare emancipazione diffusa. E procedendo lungo questa direzione, ossia verso una tecnica che liberi l’umano dal lavoro per come lo abbiamo interpretato fino ad oggi, sarebbe poi necessario ricomprendere il fondamento stesso della Repubblica, vale a dire il lavoro, che mi pare che ancora oggi venga interpretato alla luce di una visione troppo riduzionista e legata ai processi produttivi della Seconda Rivoluzione Industriale. Infatti, mi sembra che spesso il richiamo all’importanza del lavoro non venga fatto con l’obiettivo di emancipare l’umano e permettergli di contribuire al progresso della società nelle forme più libere e creative possibili, come addirittura il Marx dell’Ideologia Tedesca lasciava intendere, ma come un feticcio ideologico legato a una società otto-novecentesca ancora fortemente fondata sulla manifattura e sui servizi di base.

Come dice l’economista del MIT Michael Piore, “il concetto moderno di disoccupazione deriva da un particolare rapporto di lavoro subordinato, quello della grande fabbrica manifatturiera stabile”. Internet e l’automazione stanno già rivoluzionando tale concetto, cosi ancora fondato su “una separazione radicale, nel tempo e nello spazio, dalla famiglia e dall’attività del tempo libero”. Tale visione di lavoro non sembra più adatta a valutare la vera sfida che ci troviamo a fronteggiare: quella di generare una trasformazione radicale dello stile di vita e del problema economico.

E allora l’Art.1 potrebbe essere capito solo se interpretato alla luce dell’Art. 4 della Costituzione, in cui viene sancito che ogni cittadino è chiamato al dovere di svolgere un’attività che concorra “al progresso materiale o spirituale della società”, a un progresso che sembra quindi non più così vincolato a una visione materialistica e ottocentesca del lavoro. Parole quelle della Costituzione che, come quelle di Keynes, sono ancora molto lontane dall’essere attuate. E forse persino totalmente capite.

Twitter @GabrieleGuzzi