Donne e lavoro: cosa (non) fa lo Stato

scritto da il 08 Marzo 2019

L’8 marzo può essere una buona occasione per riflettere sui temi di equità di genere. Di particolare importanza sono le pari opportunità nel mercato del lavoro, tema sul quale il settore pubblico può fare molto. Ma quale è lo stato dell’arte, e come si può migliorare?

Se nel tempo il gender gap sta diminuendo, l’Italia continua a rimanere indietro in termini di partecipazione alla sfera pubblica, in particolare sul lavoro e in politica. Il World Economic Forum ha stimato nel report 2018 sul Global Gender Gap che l’Italia si troverebbe al 70esimo posto nel mondo per equità di genere. Mentre ci piazziamo bene sull’uguaglianza educativa e sanitaria, siamo invece indietro per quanto riguarda la partecipazione politica ed economica.

Negli ultimi anni si sono osservati alcuni progressi: vi è stato un incremento della presenza femminile in politica, e anche nel mercato del lavoro il tasso di partecipazione delle donne è aumentato del 10 per cento rispetto al 2000.  Nonostante sia ancora inferiore a quello degli uomini, questo aumento indica una forte volontà̀ da parte delle lavoratrici di inserirsi e integrarsi sempre di più̀ nel mondo del lavoro. Un tasto dolente continua a essere la disuguaglianza salariale, per cui l’Italia raggiunge solo il 126esimo posto nella classifica del World Economic Forum.

Nonostante questi progressi lo stato sociale italiano non sembra essersi adeguato a sufficienza ai cambiamenti in atto, né essere in grado di promuoverli. Per questo motivo le lavoratrici continuano a essere svantaggiate rispetto ai colleghi uomini, sia dal punto di vista retributivo sia sulla carriera.

Per un’equa distribuzione delle responsabilità familiari

In Italia, il congedo dal lavoro per le madri ha una durata di cinque mesi, mentre il congedo di paternità dura solamente cinque giorni. La breve durata del secondo e l’impossibilità di trasferire dalla madre al padre parte del congedo di maternità causano una prolungata assenza delle donne dal mondo lavorativo, e dunque ne danneggiano le prospettive di assunzione da parte dei datori di lavoro. In aggiunta, entrambi i genitori possono avvalersi del congedo parentale facoltativo, il quale è però scarsamente retribuito. Di conseguenza, dal momento che il padre spesso costituisce la principale fonte di reddito della famiglia, non c’è da stupirsi se secondo Eurobarometro nel 2018 solamente il 13 per cento dei padri ha fatto o ha pensato di fare domanda per il congedo parentale.

Per questi motivi allungare il congedo di paternità, stabilire una più alta retribuzione per il congedo parentale, e rendere più flessibile la distribuzione tra i genitori dei periodi di astensione dal lavoro possono essere importanti passi in avanti nel raggiungimento di una maggiore uguaglianza di genere. Inoltre, una più equa divisione delle responsabilità genitoriali non solo contribuisce a diminuire le differenze salariali tra uomini e donne, ma può beneficiare anche la relazione tra padre e figli. In questa direzione va la direttiva proposta nel 2017 dalla Commissione europea, che introduce un congedo di paternità obbligatorio di dieci giorni e il diritto per entrambi i genitori di disporre di un congedo parentale individuale di due mesi, non trasferibili all’altro genitore e retribuito almeno quanto il congedo per malattia. In caso di approvazione finale della direttiva, tali misure dovranno essere adottate anche in Italia.

In senso opposto va invece la legge di bilancio approvata nel dicembre scorso dal governo, che – con l’introduzione della maternità flessibile – prevede la possibilità per le lavoratrici di scegliere di lavorare fino al parto e di fruire di tutti e cinque i mesi del congedo in seguito alla nascita del bambino, previa autorizzazione del medico. Dunque, non solo non vi è alcun alleggerimento dell’onere sopportato dalla madre per quanto concerne la cura dei figli, ma con tale misura si danneggiano particolarmente le donne in difficoltà economica, che saranno molto probabilmente le uniche a usufruirne.

Asili nido: solo per 21 bambini su 100

Lo stato sociale non si ferma al congedo: la cura dei bambini è un altro compito importante delle istituzioni pubbliche (e private) per raggiungere l’equità tra uomini e donne. Considerato che le donne riducono le ore lavorative molto più degli uomini dopo la nascita di un figlio – 1 donna su 5 in Italia sceglie il part time per dedicarsi a un figlio o a un familiare – i nidi sono uno strumento fondamentale per conciliare la vita familiare con quella lavorativa. Nel nostro paese gli asili nido possono accogliere in media 21 bambini 0-2 anni su 100, ma l’offerta è fortemente eterogenea tra le diverse regioni, come è possibile osservare dalla figura 1. Inoltre, solo l’11,6 per cento di chi potrebbe frequentare il nido è effettivamente iscritto, secondo Istat. Alcuni studi empirici hanno riscontrato che il costo degli asili ha effetti significativi sulla partecipazione al mercato del lavoro di donne con figli piccoli, anche in Italia: più aumentano i costi delle rette, più si riduce la partecipazione femminile al lavoro, in particolare per le donne più svantaggiate. I posti offerti dal sistema attuale, infatti, sono pochi e non sono economicamente sostenibili per tutti: ne risultano svantaggiate per prime le madri lavoratrici (o che vorrebbero lavorare), con un reddito basso e che non possono ricorrere a forme di assistenza alternative. Per questo motivo, abbassare il costo – a partire da chi dispone di meno risorse – dei servizi per la prima infanzia deve essere una priorità per un paese che vuole promuovere l’entrata e il progresso delle donne nel mercato del lavoro.

Figura 1Posti pubblici e privati nei servizi socio-educativi per la prima infanzia per 100 bambini (0-2 anni), per regione (anno 2014/2015);

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Fonte: Istat

In questo contesto, la legge di bilancio 2019 ha aumentato da 1000 a 1500 euro il valore massimo del bonus asilo, un contributo che le famiglie possono ottenere per il pagamento della retta, senza requisiti economici. Si tratta di un intervento nella giusta direzione, ma si potrebbero applicare politiche più efficaci. Nel 2019 sono stati stanziati per la misura solo 300 milioni, con cui sarà possibile raggiungere una platea limitata. Investendo invece su un aumento dei posti a disposizione e su una riduzione dei costi per le famiglie si otterrebbe una copertura più ampia. Obiettivi fondamentali per aumentare l’offerta media (oggi al 21 per cento), raggiungendo il 33 per cento raccomandato dall’Unione Europea, e aumentare il numero dei comuni che offrono servizi per l’infanzia (oggi solo la metà secondo Istat).

Non chiamiamole quote rosa!

Negli ultimi anni lo Stato si è impegnato a garantire alle donne possibilità più eque di accesso a posizioni di potere grazie alle quote di genere (è improprio definirle rosa dal momento che tutelano il genere meno rappresentato, non le donne in quanto tali). Un primo strumento si applica alle elezioni politiche, imponendo che nessuno dei due generi sia sovra rappresentato oltre il 60 per cento nel complesso delle candidature presentate da ogni lista o coalizione. Tuttavia, come ha dimostrato OpenPolis, la legge è facilmente aggirabile, grazie alle candidature multiple (fino a 6 collegi) a cui le candidate donne sono state sottoposte anche nelle ultime elezioni politiche. Un secondo strumento, invece, stabilisce che nei consigli di amministrazione e negli organi di gestione di alcune società il genere meno rappresentato ottenga almeno un terzo dei membri.

Figura 2Cambiamento percentuale della quota di donne presenti negli organi delle più grandi compagnie in Europa (2010-2017);

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Fonte: Commissione europea

Nonostante il provvedimento presenti non pochi limiti, la sua implementazione ha dimostrato che la diversità ha effetti positivi sull’azienda, tra cui l’aumento del livello medio di scolarità del gruppo dirigente. In altre parole, ha provato l’infondatezza dei timori che le quote di genere conducano alla promozione di lavoratrici non competenti e immeritevoli. Le quote rimangono dunque uno strumento necessario, e non un fine. Tuttavia, adottare misure che combattano la discriminazione di genere a ogni stadio della carriera di una donna da un lato renderebbe più efficaci le quote e dall’altro garantirebbe condizioni di equità a tutte le lavoratrici, e non solo a chi occupa posizioni di rilievo.

Si potrebbero allora istituire programmi di formazione destinati specificamente alle donne (come già avviene in Germania, Malta, Repubblica Ceca e Portogallo), così come campagne di sensibilizzazione rivolte ai partiti, al personale delle aziende e alla società civile che combattano gli imperanti stereotipi di genere (ci hanno provato Croazia, Irlanda, Portogallo e Svezia). Gli esempi a cui ispirarsi sono molti, e virtuosi.

L’Italia negli anni è migliorata nelle condizioni di uguaglianza di opportunità tra uomini e donne, sul posto di lavoro e in politica. L’8 marzo è un’occasione importante per sottolineare l’importanza dell’uguaglianza di genere, ma non può essere l’unico giorno all’anno in cui si pone attenzione al tema: c’è ancora molto da fare e non basteranno certo caramelle, magari di Trenitalia, per cambiare la situazione. Servono vere riforme coraggiose, per offrire pari opportunità a tutti e a tutte.