I tagli alla sanità? Si spiegano con la crescente povertà dell’Italia

scritto da il 04 Aprile 2020

L’autore del post, Antonino Iero, oggi in pensione, è stato responsabile del Centro Studi e Ricerche Economiche e Finanziarie di UnipolSai  –

L’emergenza Coronavirus ha riacceso la polemica sul grado di finanziamento della sanità pubblica. Le difficoltà registrate sul fronte sanitario (carenza di posti letto, ridotta capienza nei reparti di terapia intensiva, assenza di presidi a tutela degli operatori sanitari, insufficienza di macchinari e, in definitiva, di medici), connesse con una scadente gestione operativa dell’emergenza, hanno sollevato preoccupate perplessità in numerosi osservatori. Tra gli altri aspetti, da più parti si è cominciato a muovere accuse al ceto politico per aver tagliato la spesa sanitaria, portando la copertura territoriale ed il livello di efficienza delle strutture ospedaliere su valori insufficienti a garantire l’assistenza ai cittadini ammalati. Da parte sua, la classe politica nega l’effettiva riduzione della spesa sanitaria o, tutt’al più, ne minimizza la portata, attribuendone comunque la responsabilità ai governi sostenuti dalla parte politica avversa.

Per orientarsi in questo quadro caotico, può essere utile osservare l’evoluzione nel tempo della spesa pubblica italiana per la sanità, anche in relazione a quanto avvenuto negli altri Paesi europei.

Nel grafico che segue è rappresentata l’incidenza della spesa sanitaria sul totale della spesa pubblica.

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Si nota, in effetti, una riduzione dell’incidenza della spesa sanitaria italiana a partire dal 2011. Occorre, tuttavia, riconoscere come l’indicatore italiano al 2018 non si discosti significativamente da quello di altri Paesi (Belgio, Francia, Spagna e Portogallo). Insomma, limitandosi a queste sole informazioni, verrebbe da osservare che non si evidenziano significativi spostamenti di finanziamenti dalla spesa pubblica sanitaria verso altri settori. Approfondiamo ulteriormente l’analisi, prendendo in considerazione un altro indicatore, ossia il peso della spesa sanitaria pubblica sul prodotto interno lordo .

schermata-2020-04-03-alle-23-36-35Anche in questo caso, si rileva una flessione del parametro italiano dopo il 2010. Peraltro, il quadro che si delinea alla fine del periodo di osservazione assume un aspetto familiare: i Paesi con la minore incidenza della spesa pubblica sanitaria sul PIL sono i cosiddetti PIGS. Nonostante ciò, la posizione dell’Italia appare più assimilabile a quella dei Paesi dell’Europa centrale (la Germania registra, nel 2018, un dato di 7,2% contro 6,8% del
nostro Paese). Sì, certo, a partire dal 2011 il peso della spesa pubblica sanitaria italiana ha smesso di crescere in rapporto al PIL, e questo testimonia una scelta politica volta a risparmiare qualche risorsa in questo settore, ma tale flessione non appare rilevante (in rapporto al PIL e, inoltre, questa tendenza accomuna anche altre nazioni europee.
Però, si potrebbe a ragione argomentare, la spesa sanitaria è rivolta a tutelare la popolazione, pertanto appare più sensato rapportare tale somma al numero dei residenti, come rappresentato nel grafico che segue, il quale risponde alla domanda “quanti euro spendono, in media, le amministrazioni pubbliche per la salute di un cittadino?”.

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Sulla base di queste nuove evidenze, l’Italia si collocherebbe in posizione intermedia tra le nazioni del Nord Europa e quelle meridionali. Anche se, in definitiva, adesso il dato italiano al 2018 tenderebbe ad apparentarsi più a quello di Spagna, Portogallo e Grecia. Inoltre, si noterà come l’insieme di questi quattro Paesi abbia in comune anche la tendenza all’appiattimento della curva, sempre a partire dal periodo in cui è scoppiata la crisi di debiti sovrani. Le nazioni europee “forti” sperimentano, al contrario, una crescita costante della spesa sanitaria pro capite.

Va poi tenuto conto del fatto che il settore sanitario è caratterizzato da un tasso di inflazione specifico generalmente maggiore di quello dell’intero sistema economico. Non è quindi inopportuno trasformare i valori di spesa pro capite in dati ad euro costanti. In questo modo, si riduce la distorsione introdotta dall’effetto di aumento dei prezzi sanitari e si fa emergere l’effettivo andamento della spesa sanitaria pro capite reale. Poiché le serie storiche sul tasso di inflazione distinte per attività, messe a disposizione da Eurostat, partono dal 1997, prenderemo tale anno come riferimento.

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Purtroppo, assumendo questo nuovo punto di vista, la posizione dell’Italia peggiora ulteriormente, in un contesto in cui comunque si riafferma la debole posizione di tutti i quattro PIGS. Se poi si calcola, per il periodo 1997 – 2018, il tasso di crescita medio annuo della spesa sanitaria pro capite espressa in euro costanti, si evidenzia come l’Italia sia il Paese con il tasso di crescita minore tra tutti quelli considerati.

La conclusione cui si giunge sulla base di queste informazioni appare necessariamente più articolata che non una semplice condanna (o assoluzione) degli esecutivi che hanno governato questo Paese dall’imputazione di aver tagliato la spesa sanitaria pubblica.
Infatti, l’andamento della spesa sanitaria appare non discostarsi troppo dai dati storici (e/o dai dati dei nostri partner europei) sia in termini di composizione (incidenza sulla spesa pubblica totale), sia in termini di peso sul PIL. È quindi da scartare l’ipotesi di una drastica riduzione degli stanziamenti a favore della sanità pubblica.

Ma il discorso cambia se si fa riferimento alla spesa pro capite. Qui la distanza tra Italia e Paesi forti emerge chiaramente con riferimento ai dati in euro correnti e, ancor più, con riferimento ai dati in euro costanti. In sostanza, i cittadini italiani hanno avuto, in media, a disposizione per tutelare la loro salute meno risorse degli abitanti, per esempio, della Francia. Nei fatti, questo significa che il sistema sanitario pubblico italiano ha ricevuto meno finanziamenti di quelli degli altri Paesi europei con cui amiamo confrontarci.

La possibile spiegazione di tale incongruenza emerge ove si consideri come il profilo evolutivo della spesa sanitaria pro capite, soprattutto di quella in euro correnti, appaia “stranamente” simile a quella del PIL pro capite. La conclusione cui si arriva è che il sistema sanitario italiano è strutturalmente PIÙ DEBOLE di quello dei Paesi europei forti perché l’Italia è significativamente PIÙ POVERA di tali Paesi.

Naturalmente, vi sono altri fattori importanti che andrebbero considerati: l’efficienza e l’efficacia del sistema, lo sbilanciamento a favore della sanità privata, la competenza e la correttezza di chi ha il compito di gestire la spesa sanitaria, etc. Tuttavia, in definitiva, si può affermare che, alla luce del progressivo declino economico nazionale, il livello di spesa pubblica sanitaria realizzato in Italia era quello che ci potevamo permettere. Una riprova indiretta di tale considerazione si ricava dal fatto che, anche all’interno del territorio nazionale, vi sia una rilevante differenziazione, in termini di livelli di assistenza sanitaria, tra aree ricche (le regioni del Nord) e aree povere (la maggioranza delle regioni del Sud).

Detto altrimenti: la stagnazione della ricchezza complessiva prodotta in Italia si è riflessa in una sostanziale insufficienza della spesa sanitaria che è diventata evidente nel momento in cui è scoppiata un’emergenza.

Correre ai ripari adesso implica non solo rivedere l’entità degli stanziamenti a favore della sanità pubblica, ma anche invertire il trend di declino economico ormai imboccato dal nostro Paese. Infatti, la strutturale debolezza della sanità pubblica, che stiamo “scoprendo” in queste settimane a causa della dilagante epidemia da Coronavirus, purtroppo vale anche per altri comparti pubblici: l’istruzione, la ricerca, il sistema giudiziario, i trasporti e via dicendo. Comparti che operano in situazioni forse meno drammatiche rispetto al sistema sanitario, ma altrettanto importanti per la qualità della vita dei cittadini italiani.