Etica e hi-tech, chi vuol essere laureato in lettere e filosofia?

scritto da il 06 Aprile 2020

L’autore di questo post è Andrea Ciucci, PhD in filosofia contemporanea, prete cattolico, ufficiale della Pontificia Accademia per la Vita. Lavora sui nessi tra antropologia, etica ed esperienza religiosa, con particolare riferimento alle nuove tecnologie, alla comunicazione, alla condizione giovanile e familiare, al cibo. I suoi libri migliori sono per bambini –

Che lavoro faranno i 1035 laureati in studi umanistici nel 2019 alla Statale di Milano? Quale progetto professionale hanno in mente i 13065 iscritti a Lettere e Filosofia alla Sapienza di Roma nell’anno accademico 2019-2020?

La perplessità circa gli sbocchi professionali dei laureati in discipline umanistiche, in un tempo e una società in cui l’approccio scientifico-tecnologico sembra assorbire la maggior parte delle attenzioni e della risorse finanziarie disponibili, non solo non è nuova ma è radicata nel comune sentire, fino a raggiungere la quasi totalità delle famiglie italiane che, pur apprezzando la una passione letteraria e filosofica del figlio maturando, vedono con preoccupazione una scelta universitaria che assecondi tale inclinazione: “Troverà mai un lavoro?”.

Un autorevole aiuto agli aspiranti filosofi e letterati è venuto recentemente da un articolo pubblicato nientemeno che su Nature da Ethan Shah, nuovo CEO della British Academy di Londra. In esso, l’autore si lamenta del fatto che un rappresentante del governo inglese ha chiamato a raccolta matematici, fisici e statistici per supportare l’azione governativa, privilegiando di fatto un approccio scientifico-tecnologico alle questioni oggi in campo rispetto a uno umanistico. Il rischio, secondo Shah, è quello che così facendo non si riescano ad affrontare le sfide del prossimo decennio. A sostegno della tesi, sono portati alcuni esempi in campo sanitario, sociale, climatico e culturale, in cui si dimostra che solo un intervento pluridisciplinare, capace cioè di integrare prospettiva scientifico-tecnologica e prospettiva umanistica, permette risultati efficaci e duraturi in tempi di questioni complesse, ciò che è esattamente chiesto a un saggio governo democratico.

Se il Governo di Londra non sembra avvertito di questa opportunità, dall’altra parte dell’oceano le cose paiono andare diversamente, soprattutto in ambito economico industriale. La convenienza di un apporto significativo della prospettiva umanistica alla ricerca scientifico-tecnologica pare essere apprezzata sia dal punto di vista delle aziende sia da quello dei professionisti coinvolti.

Una semplice analisi dei percorsi professionali di laureati in materie umanistiche mette in luce almeno tre fattori positivi:

1. Una formazione di questo tipo favorisce lo sviluppo di carriere apicali. Secondo un’analisi di MarketWatch su dati PayScale, i laureati in filosofia hanno mediamente il doppio di possibilità di diventare CEO.

2. La retribuzione è più che soddisfacente, soprattutto nel lungo periodo. Nel report dell’American Academy of Arts and Sciences intitolato The State of the Humanities 2018: Graduates in the Workforce and Beyond, si evidenzia come un laureato in materie umanistiche guadagna mediamente $ 52.000, meglio della media generale dei laureati ($ 40.000 annui) ma meno di un ingegnere ($ 82.000); le analisi mostrano però che il gap si riduce notevolmente nel tempo.

3. Il tasso di soddisfazione di questi laureati è il più alto tra le diverse categorie. Uno studio pubblicato da David J. Deming, economista di Harvard, dedicato all’evoluzione negli ultimi quarant’anni dell’occupazione dei laureati in ambiti umanistici, ha mostrato che frequentemente tali laureati svolgono mansioni appaganti, positivamente riconosciute e non ripetitive. Anche in Italia, secondo il consorzio Almalaurea, il tasso di soddisfazione dei laureati in scienze umanistiche è un lusinghiero 7.5/10, identico a quello di ingegneri e matematici, che possono però vantare uno stipendio mediamente più alto.

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Molteplici sono invece i motivi per cui sempre più, soprattutto nel mondo anglosassone ma non solo, i laureati in filosofia e in materie umanistiche sono ricercati da grandi aziende. Se lo sbocco professionale più comune continua ad essere nell’ambito della Risorse Umane (come segnalato anche nelle presentazioni dei corsi di laurea in molti siti universitari) e nell’accompagnamento personale (i così detti philosophical counselors), ha stupito la notizia relativa alla ricerca di laureati in filosofia da parte dei grandi colossi della Silicon Valley. L’industria High tech – così anche un articolo apparso su Quartz che riprende le riflessioni del philosophical counselor Andrew J Taggart – cercano figure professionali capaci di una filosofia pratica finalizzata a un miglioramento della qualità delle decisioni industriali (e della vita del management che le delibera) e a una riflessione critica che opera secondo un duplice passaggio metodologico:

1. un fondamentale spostamento di domanda: dal “come fare?” al “perché fare?”;

2. una visione complessiva e non settoriale dei problemi.

Una riflessione pratica sui fini delle scelte poste in essere e sulla loro collocazione in una comprensione più ampia della realtà su cui impattano, esprimono ancora una visione parziale, e tipicamente anglosassone, della questione. Non è banale che una domanda di comprensione ampia di alcuni fenomeni venga esattamente dal mondo HiTech. Il mutamento operato dalla rivoluzione digitale infatti non riguarda solo alcuni settori della vita umana: grazie alla sua assoluta trasversalità, esso sta generando un mondo, un ambiente (l’infosfera, secondo una felice formulazione di Luciano Floridi) entro cui tutta l’esperienza umana viene ricollocata e ridisegnata. Un’assunzione responsabile di questo fenomeno impone l’esercizio costante della ricerca di una visione la più complessiva possibile della realtà. L’approccio mentale latino, più attento a una riflessione di fondo rispetto a quello più pragmatico di derivazione anglosassone, ha probabilmente qualche strumento in più per offrire una visione complessiva della realtà in cui la realtà economica opera, capace di esprimere in modo più approfondito alcune questioni e di esibire un discorso complessivo sul metodo della ricerca, abile a mostrare punti di forza e limiti necessari.

I filosofi e i letterati possono oggi offrire una lettura critica, ragionata e riflessa, della connessione (e delle sue conseguenze) tra la produzione industriale/tecnologica e il mondo umano, assunto il più possibile nella sua complessa completezza. Tale esercizio offre anzitutto una opportunità per uscire dal vicolo cieco dell’iperspecializzazione che segna oggi ogni ambito scientifico e che rende difficile, se non muto, il dialogo interdisciplinare, privando la ricerca (anche quella industriale) dell’apporto e dei punti di vista delle diverse discipline. Gli specializzati in materie umanistiche, se capaci di evitare a loro volta l’iperspecialismo che spesso li connota, possono aiutare questo in questo lavoro di connessione.

Il secondo frutto è quello che potremmo definire la possibilità di una narrativa puntuale, non banale, realmente motivante: raccontare un fatto, anche un prodotto o un servizio, significa connetterlo al mondo umano, inserirlo in un tempo e in luogo, permettere che esibisca le sue ragioni e le sue potenzialità, anche i suoi limiti. Non è solo una questione di un efficace storytelling pubblicitario, bensì della possibilità di dire il senso più profondo di certe scelte e opportunità.

L’esito più significativo di questa collocazione nell’umano della pratica economico produttiva è però certamente lo schiudersi della domanda etica. E ancora una volta colpisce il fatto che proprio nel mondo HiTech sia esplosa in questi ultimi anni un’intensa riflessione etica, soprattutto tra quanti si occupano di intelligenza artificiale. Ciò che ha colpito molti nell’assistere a Roma, qualche settimana fa, alla firma di una Carta etica sull’intelligenza artificiale da parte dei massimi leader mondiali di due colossi come IBM e Microsoft, non è stato l’accento posto sui criteri etici espressi nel documento, quanto la richiesta forte di una visione sapiente, capace di collocare e di dire il senso della rivoluzione che sta accadendo.

L’implementazione di una riflessione etica nel processo produttivo è possibile però a condizione che il filosofo/letterato sieda nel tavolo di lavoro già nella fase progettuale, realizzando di fatto la più volte invocata ethics by design; una valutazione etica avviata a cose fatte, che si interroga sulla bontà di un prodotto già realizzato, risulta particolarmente debole e inefficace, impossibilitata a riflettere responsabilmente e criticamente sui fini e le modalità di progettazione e produzione. Così come un’indisponibilità ad assumere i costi industriali di una valutazione etica della produzione riduce il lavoro di riflessione compiuto a una mera operazione di maquillage.

Un’ultima questione merita di essere almeno menzionata: se i dati presentati esibiscono un interesse positivo e probabilmente in crescita del mondo produttivo per i laureati in discipline umanistiche, questi ultimi sono avvertiti di tale interesse e opportunità? Sono preparati a rispondere a queste domande? I percorsi accademici filosofici e letterari, soprattutto in Italia e nel mondo latino, abilitano a questo? La sensazione è che, abbastanza frequentemente, escano giovani laureati che sono riusciti a leggere tutto Kant e perfino a capirlo, ma che non hanno altro immaginario lavorativo che pubblicare una monumentale monografia su Kant, che nessuno leggerà, che nessuno comprerà.

Twitter @donciucci