Le imprese di famiglia sapranno reagire all’offensiva del Covid-19?

scritto da il 15 Ottobre 2020

In questi giorni in cui si susseguono notizie contrastanti e a dire il vero prevalentemente negative sul futuro dell’economia nei prossimi mesi, continuo a ripensare alla crisi del 2008/2011.

In quegli anni e nei successivi ci siamo occupati di diverse operazioni di risanamento aziendale e ciò che mi colpì ed ancora mi colpisce fu l’atteggiamento dell’imprenditore pronto ad affondare con la sua nave, quasi ad ubbidire ad antiche leggi di marina piuttosto che cedere l’azienda, tutelare la famiglia, seppur rinunciando all’impresa ed a una storia fortemente radicata in lui.

Qualche giorno fa ne discutevamo con un noto avvocato milanese nel suo splendido ufficio affacciato sul Duomo di Milano: la famiglia deve diventare maggiormente consapevole della struttura del proprio patrimonio e definire per tempo quelli che sono i beni disponibili ed i beni indisponibili.

Per semplificare il castello di famiglia, bene identitario per eccellenza, può essere per alcuni considerato indisponibile (non si vende la storia di famiglia) oppure per altri assolutamente vendibile rappresentando solo un costo improduttivo.

Se sostituite al castello l’impresa di famiglia (che spesso porta il nome del nonno), capite bene il dilemma dell’imprenditore. Dilemma sia chiaro che comprendo perfettamente e che non sottovaluto in alcun modo.

In diversi casi questo dilemma ha portato ad una inerzia nel decidere che ha danneggiato pesantemente sia l’impresa (minandone in qualche caso la continuità) sia la famiglia.

Oggi il nostro sistema economico formato prevalentemente di piccole e medie imprese non può permettersi una così rilevante perdita di valore. Sia per la crisi sia per esigenze strategiche ed economiche interi settori sono interessati da importanti processi di consolidamento. Le PMI devono ripensare la dimensione minima per competere e saper far fronte ad una stagione di ristrutturazioni (anche dolorose) e di M&A.

Tutto questo implica un approccio più laico alla proprietà dell’impresa, imparando a vedersi oltre che come imprenditori anche come investitori.

Su questi temi ho voluto confrontarmi con Salvatore Sciascia, Professore Ordinario dell’Università Cattaneo LIUC, dove coordina un percorso della laurea triennale in Economia Aziendale dedicato alla gestione delle imprese familiari e co-dirige il FABULA (FAmily BUsiness LAb).

Ci aspettiamo un autunno difficile ed un ancor più complesso primo trimestre 2021. Le imprese italiane si trovano a dover affrontare la sfida del cambiamento, cambiamento reso ancor più repentino dagli effetti economici del Covid-19.

Le imprese di famiglia sapranno reagire alla crisi?

Credo che sia prima di tutto importante chiarire che quando parliamo di imprese familiari non ci riferiamo solo alle PMI. E per comprenderlo basta fare alcuni nomi: Agnelli, Barilla, Bombassei, Caprotti, Del Vecchio, Ferrero, Lavazza, Marcegaglia, Menarini, Moratti, solo per citare alcuni esempi.

Gli studi ci dicono le nostre imprese familiari stanno facendo progressi in termini di dimensioni, professionalizzazione e apertura della governance: ciò mi conforta e mi fa essere in qualche modo ottimista in merito alla loro capacità di affrontare questa tempesta meglio delle crisi precedenti.

È chiaro che le PMI (familiari o no) soffriranno più delle grandi imprese, ma – a parità di dimensioni – le imprese a proprietà familiare dovrebbero resistere di più. Gli elementi per pensarlo sono diversi.

Molte ricerche scientifiche, anche su dati italiani, rivelano che le imprese a proprietà familiare registrano mediamente performance superiori in termini di redditività, crescita e solidità, soprattutto quando aperte in termini di capitali, governance e management. Ciò vale anche e soprattutto in periodi di crisi, quando si attinge alle energie (economiche e non) della famiglia per sostenere il più possibile l’impresa e tutti i suoi stakeholder.

Anche nel caso delle quotate, i mercati azionari premiano le imprese familiari, in tempi di crisi e non: a loro si riconosce sia una maggiore capacità di resistenza, sia una maggiore lungimiranza rispetto alle imprese non familiari. Le famiglie proprietarie hanno missioni forti, costruite negli anni e da consolidare attraverso le generazioni successive.

Gli studi confermano che quando la sopravvivenza è a rischio, le famiglie imprenditoriali si mobilitano per preservare l’impresa, il cui valore non è soltanto economico, ma anche sociale e affettivo. Mediamente più efficienti e parsimoniose, nonché più solide, sono potenzialmente più capaci di fronteggiare situazioni di crisi.

L’impresa come valore affettivo può essere quindi sia un limite (reticenza a separarsene) sia un grande vantaggio (grande volontà ed impegno dei soci nel preservarne la continuità).

Certamente, ma in questo periodo storico credo che la dimensione socio-emozionale sia più un punto di forza che di debolezza. Le distanze che il COVID ci impone anche nelle imprese (fatico a parlare di “smart” working) sono state e sono meno deleterie in contesti come quelli delle imprese familiari, in cui la forza delle buone relazioni contribuisce a non sfilacciare troppo i rapporti fra tutti gli stakeholder (proprietà, management, forza lavoro, fornitori e clienti, etc.). Ciò vale ovviamente nei casi “virtuosi”, fortunatamente superiori rispetto ai (purtroppo più eclatanti) casi “viziosi”. Di imprese virtuose ne sto incontrando davvero parecchie in questi mesi, perché con KPMG e Credit Suisse stiamo studiando le imprese candidate al premio “Di padre in figlio”.

L’impresa familiare vive di contraddizioni che in fondo sono la sua forza e contemporaneamente la sua debolezza. Credo che anche innovazione e cambiamento in fondo vengano affrontati in maniera differente rispetto alle imprese che non appartengono al family business.

Si, l’innovazione è proprio un terreno di grandi paradossi nelle imprese familiari. Gli studi ci dicono che investono meno in R&D, guadagnandosi la fama di imprese poco orientate all’innovazione, ma che alla fine realizzano molte innovazioni. In altre parole, con minori input ottengono maggiori output, seppur tipicamente di natura incrementale e non radicale. Sono spesso frutto di processi informali, non particolarmente strutturati, ma non per questo inefficienti, anzi! La parsimonia, la sovrapposizione fra proprietà e management, la capacità di creare un buon clima interno e delle buone relazioni esterne consentono di essere particolarmente efficienti, nei casi virtuosi. Per non parlare della loro capacità di sfruttare la tradizione come ingrediente principale per le loro innovazioni. Più paradossali di così?

Assistiamo quindi ad un percorso verso la maturità delle nostre PMI a base familiare che dovranno esser capaci di sfruttare i loro punti di forza (riscoprendo il loro DNA, come sostengo anche nel libro “Restartup, le scelte imprenditoriali non più rimandabili” che proprio il DNA riporta in copertina) e cercando di limitare i loro punti di debolezza attraverso una tensione alla crescita dimensionale ove necessario e dotandosi di una governance capace di aiutare la famiglia ad avere un approccio più laico al fare impresa.

Questa probabilmente la discriminante tra chi saprà reagire alla crisi e chi no.

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