Neet in crescita: Pnrr e Centri per l’impiego potrebbero non bastare

scritto da il 26 Luglio 2021

Negli ultimi tempi, l’implementazione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) è oggetto di continui dibattiti. Il Piano intende far intraprendere al nostro Paese un processo di convergenza verso gli Stati più ricchi dell’Unione europea attraverso cospicui investimenti rivolti non solo alla digitalizzazione e alla transizione ecologica, ma anche ai temi più insidiosi che affliggono l’Italia da ormai più di un decennio. Tra questi vi è quello della disoccupazione, in particolare quella giovanile, il cui quadro risulta ancora oggi piuttosto allarmante e richiede misure proficue da attuare in tempi rapidi.

Infatti, nel nostro Paese, una giovane donna su quattro tra i 15 e i 29 anni non lavora e non risulta nemmeno iscritta a un corso di studio o di altra formazione professionale, mentre per gli uomini il dato risulta solo leggermente più basso. Questi giovani dal futuro pressoché incerto, denominati Neither in Employment or in Education or Training (NEET), nell’Area Euro sono pari a 7,6 milioni di cui ben 2,1 milioni solo in Italia[1]. Rapportando questi dati al campione della popolazione tra i 15 e i 29 anni, si scopre che nel nostro Paese i NEET sono ben 10 punti percentuali in più rispetto a quelli nei paesi dell’Area Euro. Tuttavia, sebbene questi ultimi dall’inizio della prima crisi finanziaria nel 2008 a oggi sono rimasti in quota pressoché invariata, in Italia i giovani NEET sono cresciuti di ben 4 punti e in misura maggiore gli uomini, passati dal 15,6% nel 2008 al 21,3% nel 2020.

% di NEET sulla popolazione tra i 15 e il 29 anni: confronto tra donne e uomini in Italia e nei paesi dell’Area Euro

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Fonte: elaborazioni su dati EUROSTAT

Le ripercussioni economiche e sociali decisamente negative di questa situazione vengono in parte attenuate dal sostegno finanziario familiare. È piuttosto elevato infatti, il numero dei giovani italiani che vivono in famiglia con almeno un genitore. Si tratta del 92,4% nella fascia di età tra i 20 e i 24 anni e del 65,2% tra i 25 e i 29 anni; di questi, inoltre, è in cerca di un’occupazione in media il 26,6%[2]. Per di più, questi numeri, a partire dal 2008 sono risultati in costante aumento arrivando a essere oggi circa 6 punti percentuali in più, interessando sia gli uomini sia le donne e in misura maggiore il Sud e le Isole.

In Italia, il canale statale più diretto e tradizionale a cui viene demandata la funzione di attuazione delle politiche pubbliche in materia di lavoro è rappresentato dai Centri per l’Impiego (CPI). Attualmente, in seguito a una modifica effettuata ad aprile 2020, i CPI sono chiamati a convocare obbligatoriamente tutti i percettori del Reddito di Cittadinanza (RdC) al fine di stipulare il Patto per il lavoro e per l’inclusione sociale. Si tratta di un accordo che ha la finalità di accompagnare i beneficiari del RdC all’inserimento lavorativo o all’adesione di un percorso formativo personalizzato o di altra attività al servizio della comunità. I CPI, se adeguatamente efficaci, si qualificherebbero a oggi quali mezzi chiave nella riduzione della quota di NEET, poiché dagli ultimi dati si evince che tra i primari beneficiari del RdC vi sono proprio gli under 29, nel tempo in quota sempre più crescente rispetto a tutte le altre fasce di età.

Recentemente, a occuparsi di un rinnovato rafforzamento dei CPI è stato il Decreto ministeriale firmato il 22 maggio 2020, che ha previsto la realizzazione di un piano straordinario per il loro potenziamento, attraverso il raddoppio dell’organico entro la fine di quest’anno e appositi investimenti infrastrutturali delle sedi. Tuttavia, i CPI, coordinati dalle singole Regioni o Province autonome, sembrerebbero avere risultati deludenti rispetto alle attese, soprattutto per quel che riguarda la realizzazione delle politiche attive del lavoro di coloro che percepiscono il RdC. Secondo gli ultimi dati ANPAL, disponibili alla data del 1° aprile 2021, emerge che, a fronte di un milione e 656 mila soggetti convocati dai CPI, poco più di 1 milione e 56 mila ha sottoscritto il Patto per il lavoro mentre, a febbraio 2021, poco oltre 152 mila persone avevano instaurato un rapporto di lavoro successivo alla data di presentazione della domanda, cioè all’incirca il 15%. Perfino la Corte dei Conti ha recentemente mosso la perplessità circa l’efficacia dell’attività dei CPI quale strumento utile a promuovere l’incontro tra domanda e offerta di lavoro. Tuttavia, affiorano ulteriori difficoltà e scetticismo nell’indagare il tasso di successo dei CPI poiché ancora oggi non vi sono dati di adeguato dettaglio sulla loro attività per singola Regione e non vi è nemmeno la possibilità di indagare in che misura gli under 29 convocati abbiano intrapreso effettivamente un percorso di lavoro o di formazione tramite questo canale.

Da qui è emersa l’ulteriore necessità di affrontare la questione dei NEET anche all’interno del PNRR attraverso politiche che possano agire nell’immediato, prima che i giovani rimangano fuori dal mercato del lavoro intervenendo quindi direttamente sul sistema dell’istruzione. Più nello specifico, appositi interventi sono stati puntualizzati alla sezione “M5C1” a cui sono state allocate risorse per 6,66 miliardi di euro di cui 1,25 miliardi indirizzate specificatamente a due leve strategiche a sostegno dell’occupazione dei NEET. Si tratta del potenziamento del cosiddetto Sistema Duale e del rafforzamento del Servizio Civile Universale. Il primo prevede la realizzazione di percorsi d’integrazione tra il sistema dell’istruzione e i datori di lavoro per ridurre il gap in termini di competenze tra scuola e impresa. Il secondo invece, promuove l’ingresso dei giovani tra i 18 e i 28 anni in progetti di volontariato nell’ambito ad esempio della protezione civile e della promozione del patrimonio storico, artistico e culturale prevedendo un rimborso mensile di 439,5 euro.

Tuttavia, affinché il Sistema Duale divenga uno strumento effettivo di incentivo all’occupazione è necessario che le risorse finanziarie stanziate siano indirizzate a una platea sempre più ampia di Centri di Formazione Professionale, in particolare nelle aree dove l’abbandono scolastico è un fenomeno ancora molto diffuso (Mezzogiorno e Isole). Attraverso importanti collaborazioni tra istituti di formazione e imprese che operano nei settori industriali più strategici del nostro Paese e caratterizzati da un elevato potenziale di crescita, l’apprendistato di primo livello (o cd. apprendistato formativo/duale ex art. 43 D. Lgs. 81/2015) se promosso vigorosamente, rappresenterebbe la forma più incisiva di inserimento dei giovani nel mondo del lavoro. Infatti, questa forma contrattuale permetterebbe il conseguimento di un titolo di studio e al tempo stesso un’esperienza professionale diretta che potrebbe essere estesa fino ad un massimo di tre anni per poi trasformarsi in un contratto di apprendistato professionalizzante.

A sostegno del Sistema Duale quale fattore chiave di incentivo all’occupazione giovanile vi sono le ultime indagini rilevate dal Sistema Informativo Excelsior realizzate da Unioncamere in accordo con ANPAL. Le risposte mostrano che, in Italia, i profili maggiormente richiesti dalle imprese appartengono a gruppi con un titolo di istruzione di secondo grado/diploma professionale e a quelli che non possiedono un titolo di studio, con una media che si attesta rispettivamente al 55% e al 30%. Al restante 15% è richiesto invece un titolo di istruzione universitaria.

Per quanto riguarda invece il Servizio Civile Universale, la sua capacità di attrazione sarebbe rafforzata notevolmente dalla sua promozione attraverso più canali di comunicazione, inclusi i social network. Inoltre, il Servizio Civile Universale potrebbe essere proposto direttamente ai giovani NEET dai CPI, al fine di introdurli a un programma formativo, prevedendo anche la possibilità di prestare il Servizio al di fuori dei confini nazionali con un compenso più elevato rispetto a quello previsto attualmente, tale da risultare decisamente più attrattivo rispetto al sussidio medio ricevuto tramite il RdC.

Insomma, in Italia la strada per recuperare il gap tra i nostri giovani in cerca di un’occupazione o fuori dal sistema dell’istruzione e quelli degli altri paesi dell’Aera Euro rimane tutta in salita.

Il rischio che la crescita dei nostri NEET sia molto più veloce di quanto non lo sia il miglioramento delle politiche attive per il lavoro attualmente presenti per i giovanissimi rimane tuttora altissimo. Occorre dunque fare molto di più per far sì che Next Generation UE sia effettivamente rivolto alle future generazioni senza lasciare indietro nessuno.

Post di Viviana Raimondo.

Le considerazioni espresse in questo post sono da attribuirsi esclusivamente all’autrice.

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Fonti:

[1] Dati Eurostat a fine 2020.
[2] Dati ISTAT a fine 2020.